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TACCHETTO 12 - CAPITOLO 1:
FABRIZIO
Dacché l'aveva
conosciuto Fabrizio era certo che l'avrebbe amato per tutta la vita. Era stato un
colpo di fulmine e sentiva che le loro strade non si sarebbero mai separate.
Chiunque avrebbe potuto dirgli di lasciar perdere, di abbandonare facili illusioni,
perché quel tipo di attaccamento non lo avrebbe portato da nessuna parte. Ma
lui si era lasciato cullare dai sogni di gloria e non si era arreso. Aveva
continuato ad amarlo con la stessa intensità che aveva provato da bambino,
quando si erano conosciuti.
Il calcio era
tutta la sua vita.
Le prime partite
- quando era ancora troppo piccolo per capire bene il gioco - le aveva guardate
col papà alla tv e una in particolare gli era rimasta impressa nella memoria, non
tanto per la partita in sé, ma per i sentimenti che aveva scatenato nel
genitore. Era la finale dei mondiali dell'82, quando lo aveva visto piangere. Era
ancora in tenera età a quei tempi, ma era stato un evento così raro vederlo in
lacrime che non l'aveva più dimenticato. E aveva capito che per reagire in quel
modo doveva esserci qualcosa di straordinario in quel gioco. Qualcosa di
speciale che lui ancora non riusciva a capire, ma che si sarebbe impegnato a
scoprire.
Inizialmente
aveva studiato suo padre. Ogni volta che giocava l'Inter e decideva di
guardarla in tv sembrava si preparasse per un rituale. Prendeva una bottiglia
di birra ghiacciata e la posizionava sul tavolino davanti alla vecchia venti
pollici, prendeva dall'armadio la sciarpa nerazzurra e se l'avvolgeva al collo
- anche se a casa faceva caldo - e chiedeva silenzio assoluto per tutta la
durata dell'evento. Fabrizio l'avrebbe osservato senza fiatare, ma ne avrebbe
imitato ogni singolo gesto mentre lui, ignaro, fissava lo schermo con gli occhi
sbarrati.
Lo emulava
esultando quando lo faceva lui, fingendo di portarsi un'immaginaria birra alle
labbra e poi arrabbiandosi come lui quando veniva fatto un fallo o l'arbitro fischiava
un fuorigioco che non c'era. Sua madre faceva capolino dalla porta e li spiava
divertita.
Quando poi
l'Inter vinceva allora il padre usciva da quella trance momentanea e lo
abbracciava forte per la contentezza riempiendolo di baci. Cominciò così ad
associare quell'esplosione di gioia a quello sport.
C'era stata poi
quella volta che l'aveva portato allo stadio. Quello sì che era stato un giorno
memorabile! Aveva sei anni ed erano andati a tifare la loro squadra in Coppa
Italia. Sugli spalti tra lo stuolo di tifosi che si agitavano, scalmanavano e
imprecavano (il padre aveva sempre evitato di farlo davanti a lui) Fabrizio si
era trovato catapultato in un mondo di passione e tormento. E finalmente aveva
realizzato cosa avesse provato il padre in quei fatidici mondiali.
Da allora
avevano cominciato ad andare allo stadio più spesso sotto sua richiesta, anche
se a giocare non era la loro squadra. Ciò che Fabrizio voleva rivivere era
quell'emozione. Il compartecipare a uno sfogo collettivo di gioia e dolore.
Poi un giorno
l'incanto venne spezzato.
Suo padre se ne
andò, lasciandogli un vuoto incolmabile che avrebbe cercato di riempire con i
gol guardati alla tv, ma che alla fine non lo avrebbero mai saziato a sufficienza.
Suo zio Nunzio
aveva provato a portarlo allo stadio, ma non era più stata la stessa cosa. Non
per questo però il suo amore per il calcio scemò, anzi, si ingigantì. E a ogni
partita dell'Inter ripeteva i rituali del padre, sostituendo la birra con la
coca-cola. Un modo per commemorarlo, perché era stato lui a trasmettergli la
passione per quel gioco.
Talvolta la madre
lo osservava stando sul ciglio della porta - attenta a non farsi notare - e con
straziante malinconia rivedeva in lui una parte di suo marito. Un bambino di
otto anni che ricalcava le orme del padre con i gesti che un tempo gli erano appartenuti.
Da allora Fabrizio
era cresciuto per strada e lì si era fatto le ossa. Aveva capito che per colmare
quella mancanza avrebbe dovuto darsi da fare in prima persona. Grazie alla pratica costante imparò in fretta e
diventò scattante come un fulmine. Non gli importava far altro. "Il team"
pensava, "Bisogna fare di tutto per il team." Era un pensiero che lo assillava
da mattina a sera.
La madre lo
rimproverava sempre dicendo che avrebbe dovuto darsi di più da fare a scuola,
ma la strada gli aveva insegnato la lezione più grande: non arrendersi mai.
Crescendo era
entrato nel Campionato Allievi Regionali, un risultato eccezionale per un
ragazzo che era solo agli inizi della propria carriera.
Aveva anche
cambiato squadra del cuore. Non gli sembrava corretto tifare per l'Inter quando
da sempre aveva vissuto a Catania. Per questo motivo non appena i rossazzurri
erano entrati in serie B aveva deciso di seguirne il corso degli eventi, fino a
vederli arrivare in serie A, quel giorno in cui anche lui - proprio come aveva
fatto il padre a suo tempo - si era messo a piangere per la sua squadra.
Il papà non
avrebbe criticato la sua scelta. Era certo che se fosse stato ancora vivo
sarebbe riuscito a convincerlo che tifare per la squadra della propria città
era dovere di ogni catanese che si rispetti. Ed era convinto che avrebbe
appoggiato il suo sogno, quello per cui stava lottando con le unghie e con i
denti.
Ora che si
trovava negli spogliatoi a cambiarsi dopo l'ultimo allenamento si sentiva quasi
un re. Non avrebbe mai immaginato di riuscire ad arrivare a un passo dalla
serie B. Per anni aveva giocato in C, ma il suo era un talento che non andava
buttato e il suo mister lo aveva capito subito. Per questo il procuratore
sportivo stava spingendo per farlo entrare in serie B quando aveva ancora l'età
per poter giocare. Quelle erano gambe fatte per correre, per dare potenti calci
e mandare la palla dritta in rete. Sì, Fabrizio era potente e lo sapeva. Ma ciò
che non sapeva era quanto infide potessero essere le persone. Quanta invidia si
celasse dietro i falsi sorrisi dei suoi compagni di squadra.
Non aveva mai
avuto l'animo del ragazzo socievole, pur possedendo un grande spirito di
squadra. Al di fuori del gioco era un tipo schivo, che amava stare per i fatti
suoi e a cui non piaceva quando la gente si intrometteva nei suoi affari. Ma
non per questo non aveva amici, li aveva eccome, pochi ma buoni. Spesso si
ritrovavano la sera a girare per locali, a bere fiumi di birra e canzonare
tutti coloro che a loro parere meritassero derisione.
Sua madre non
approvava il suo stile di vita, lo riteneva dissoluto, un buono a nulla
nonostante lavorasse da anni presso l'officina dello zio Nunzio. Aveva lasciato
la scuola per lavorare con lui, così non aveva preso il diploma, a gran
malincuore della madre che da allora aveva deciso di lavarsene le mani del suo
futuro.
Zio Nunzio era
il fratello minore di suo padre, anche lui gli era stato molto affezionato. Per
questo motivo quando era morto, aveva deciso di prendere sotto la propria ala
il nipote, che ormai considerava quasi come un figlio. Lui di figli suoi non ne
aveva avuti. Non si era mai nemmeno sposato e questo non perché non avesse
trovato la donna giusta, ma perché non voleva sentirsi in trappola. Dopo il
matrimonio dei genitori di Fabrizio si era reso conto che il matrimonio era una
gabbia e che lui era uno spirito libero e non avrebbe mai accettato di farsi
comandare a bacchetta.
Fabrizio aveva
cominciato a pensarla come lui, non si sarebbe sposato. No, preferiva di gran
lunga passare da una relazione all'altra senza mai impegnarsi veramente. Aveva
avuto decine di ragazze, ma nessuna aveva mai fatto veramente al caso suo. Così
le sue relazioni si basavano su incontri fugaci nei locali, qualche parola
scambiata all'orecchio, fiumi d'alcol e alla fine sesso nei bagni o a casa
della ragazza di turno. Solo una volta si era fidanzato seriamente, non era
durata più di tre mesi, ma era stata la relazione più lunga avuta fino ad
allora. Si chiamava Melania e gli era piaciuta davvero. L'unica che avesse
provato a guardare oltre l'apparenza.
Era
indubbiamente un ragazzo che non passava inosservato. Atletico, con muscoli
possenti - merito di anni di palestra -, sempre vestito all'ultima moda, ma non
per questo necessariamente secondo i canoni del buon gusto.
Melania era
riuscita a vedere altro in lui, forse del potenziale. Era stata lei a
incoraggiarlo inizialmente a intraprendere la carriera calcistica, ma non
sapeva se fosse o meno perché lo riteneva capace o solo perché sposare un
calciatore era il sogno di molte ragazzine.
Lui però non
voleva sposarsi, d'altronde a quei tempi aveva ancora solo diciassette anni e
il matrimonio non era tra le sue priorità. Il gioco alla fine aveva vinto su
tutto, anche su di lei, per questo riteneva di non poter amare altro. Il calcio
era per lui così importante da lasciare in secondo piano ogni cosa.
Vi si era
dedicato anima e corpo negli anni seguenti, raggiungendo altissimi livelli
professionali, ma uno sventurato giorno la sua vita cambiò per sempre.
Un suo amico,
uno non molto stretto ma con cui spesso intratteneva delle lunghe conversazioni
al bar, gli aveva confidato di trovarsi in gravi ristrettezze economiche. Aveva
perso il lavoro in seguito alla grave crisi economica e ora si trovava
disoccupato e con tre figli sulle spalle.
«Mi pignoreranno
casa» gli aveva detto abbattuto. «Come farà la mia famiglia?» Poi era scoppiato
in lacrime.
Fabrizio si era sentito
in soggezione. L'avrebbe aiutato volentieri se avesse avuto a disposizione il
denaro, ma purtroppo da qualche tempo le cose da zio Nunzio non andavano per il
meglio e lui tra serate in discoteca e alcol a go go era rimasto al verde.
Ci aveva pensato
molto prima di prendere quella decisione, ma alla fine si era convinto. Non
avrebbe lasciato un amico nei guai mentre c'era gente che sguazzava nell'oro.
Non era un
novizio in certe cose - la strada gli aveva insegnato più di quanto avrebbe mai
ammesso -, adesso però si era spinto oltre. Aveva organizzato un colpaccio.
Quel fine settimana avrebbero svaligiato la casa di un magnate della finanza catanese.
Fabrizio lo aveva conosciuto qualche tempo prima, quando gli aveva riparato
l'auto, l'uomo se l'era fatta consegnare personalmente a casa. E Fabrizio ricordava
tutto il lusso di cui si circondava quell'uomo, lusso di cui in parte avrebbe
anche potuto fare a meno.
L'aveva poi
incontrato il giorno prima in banca e gli aveva sentito riferire a un collega
che sarebbe partito per il fine settimana con la famiglia. Lì era scattata la
molla. E i suoi pensieri avevano cominciato a correre così velocemente che non
si era nemmeno reso conto che quello che aveva in mente era un piano criminale
e che lui non aveva bisogno di queste cose per campare.
Lui no, però il
suo amico sì. Così si disse che l'avrebbe aiutato e il giorno seguente aveva
confidato all'amico in questione il suo piano. Quest'ultimo non era sembrato
particolarmente scosso dalla proposta e aveva accettato.
La casa in
questione si trovava fuori dal centro, in un posto facilmente raggiungibile in
moto. Usarono il cinquantino di Fabrizio - l'amico aveva insistito a riguardo,
preferendo un mezzo che in caso di guai si sarebbe mosso più velocemente nel
traffico rispetto a un'auto. A Fabrizio era sembrata una buona idea.
Così, quando
tutto fu pronto, si prepararono per l'impresa. Agirono a notte fonda, in modo
da muoversi con più facilità. Ma i loro piani non andarono come previsto.
Mentre stavano
frugando tra cassetti e armadi qualcuno doveva aver visto la luce delle loro
torce dentro la casa, perché improvvisamente sentirono da lontano le sirene
della polizia. Raccattarono quanto più velocemente quel poco che erano riusciti
a prendere e si dileguarono fuori dalla finestra. Corsero a più non posso e
l'amico staccò da Fabrizio di almeno dieci metri mentre raggiungevano la moto.
Proprio in quel momento però un poliziotto sbucò da una delle siepi del
giardino e si lanciò su Fabrizio che cadde a terra con lui. L'amico si voltò un
secondo, uno solo, prima di riprendere a scappare col bottino ancora in mano.
«Infame!» gli
aveva urlato Fabrizio mentre il poliziotto gli spingeva la faccia a terra e lo
ammanettava.
Aveva passato la
nottata in cella, ma avendo deciso di consegnare la refurtiva e non avendo
altri precedenti penali fu rilasciato dopo due giorni. Il suo "amico"
l'aveva fatta franca, ma ci avrebbe pensato lui a fargliela pagare.
Tutto ciò che
desiderava una volta uscito da lì era infilargli un coltello nella pancia, ma
non appena si trovò davanti la macchina di zio Nunzio che stava ad aspettarlo
fuori dal commissariato, ogni altro pensiero scivolò via.
Lo accompagnò a
casa senza dire una parola, non che fosse necessario, nel suo sguardo aveva già
letto chiaramente tutta la sua delusione.
Avrebbe voluto
spiegargli tutto, dargli la sua versione dei fatti, fargli capire le cose dal
suo punto di vista, ma sarebbe stato inutile. Non c'erano scusanti per il suo
comportamento.
Arrivato a casa
trovò sua madre seduta al tavolo. Aveva le mani poggiate su di esso e stava
piangendo. Zio Nunzio si era avvicinato a lei e le aveva posato le mani sulle
spalle per farle coraggio. Quando vide entrare il figlio non osò rivolgergli la
parola. Lo sguardo di Fabrizio si posò prima su di lei, poi sullo zio che lo
guardava costernato. Fabrizio abbassò il capo, sentendosi per la prima volta
veramente colpevole dacché aveva architettato quel piano assurdo.
Cercò di dire
qualcosa, ma lo zio lo fermò subito con un gesto della mano.
«Vattene in
camera» gli disse. «Io e tua madre dobbiamo parlare.»
Fabrizio obbedì
e poco dopo lo zio lo raggiunse. Non riusciva a spiegarsi come un bravo ragazzo
come lui si fosse invischiato in certe cose. Nemmeno Fabrizio lo sapeva più. Lo
aveva fatto per un bene superiore, quello di aiutare un amico in difficoltà,
che però gli aveva voltato le spalle quando era stato lui a chiedere aiuto.
Sua madre - che
avrebbe voluto mandarlo via di casa - decise sotto pressione dello zio di
tenerlo con sé, ma non volle più guardarlo in faccia da quel momento. Pur
sapendo che forse era arrivato il momento di diventare indipendente dalla
propria famiglia, il ragazzo rimase.
Un paio di
giorni dopo arrivò la comunicazione che distrusse ogni sua speranza.
Si era recato
come al solito agli allenamenti settimanali, ma quel giorno il mister lo aveva
convocato in privato per parlargli. Era venuto a conoscenza del crimine commesso
e aveva deciso di radiarlo dalla squadra.
Il ragazzo
impallidì e si sentì crollare il mondo addosso. Cercò delle giustificazioni,
aggrappandosi a qualunque cosa potesse far cambiare idea al proprio allenatore,
ma fu inutile, perché anche il procuratore era dello stesso parere. E in quel
momento stesso Fabrizio realizzò di essersi giocato il futuro.
Sarebbe stata
una punizione esemplare se Fabrizio non l'avesse presa invece come una grave
offesa personale macchiandosi anche di aggressione.
A quel punto aveva
gettato alle ortiche il proprio talento. Anche perché vista la sua età
difficilmente sarebbe stato acquistato da un'altra società.
Provò vergogna
per se stesso e si chiese se suo padre lo stesse osservando dall'alto. Sarebbe
stato deluso anche lui.
E la cosa
peggiore era che aveva perso tutto per quello che in un primo momento gli era
sembrato un gesto di puro altruismo, ma che ora capiva essere una grande
idiozia. Fra l'altro il cosiddetto "amico" era anche sparito senza
lasciare traccia di sé.
Passò mesi a
vivere come uno zombie, rassegnato all'idea di aver perso la sua occasione
d'oro. All'officina era mentalmente assente e svolgeva il suo lavoro come un
automa, a casa era poco più di un fantasma. Trascorreva interi pomeriggi al
computer, collegato su Facebook, come un essere ormai privo di stimoli. Poi notò
una notizia che lo colpì.
"Cercasi
calciatori per squadra amatoriale. Requisiti richiesti: serietà, passione,
dedizione."
Dentro di lui
tornò quella carica che un tempo lo aveva portato a raggiungere importanti
obiettivi. Si disse che poteva essere un nuovo inizio, così rispose
all'annuncio. Quello a cui non aveva prestato attenzione era però la fonte da
cui proveniva la notizia: il circolo arcigay della zona.
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