martedì 31 marzo 2015

RACCONTO HORROR: AL RITORNO DAI CAMPI

AL RITORNO DAI CAMPI - di Fab Draka




Stremato e affamato Tommaso si accinse a tornare a casa. Preparò il carretto riponendo disordinatamente gli attrezzi al suo interno e guardò l’orizzonte con sguardo stanco. Il sudore gli si era accumulato sul collo e sulla fronte bruciati dal sole. Il lavoro era stato particolarmente duro quel giorno, la terra si era indurita per la siccità ed era diventata difficile da lavorare.
Stava imbrunendo e pian piano il cielo terso si colorò di tonalità d’arancio e rosa. Si avvicinò all’asino e gli fece un buffetto sul muso, poi gli accarezzò la criniera rada e spelacchiata. L’animale parve godere di quelle piccole attenzioni; ne aveva patite di fatiche quel poveretto, ma seguitava a fare il proprio dovere con zelo e dedizione.
Quel pomeriggio era rimasto quasi tutto il tempo a mangiare paglia, ma lo aveva fatto in modo svogliato, quasi che gli costasse un grandissimo sforzo. Tommaso si disse che era la stanchezza della vecchiaia. Quell’asino aveva quindici anni e ormai non ce la faceva quasi più a trainare il carro. Ben presto, pensò Tommaso, sarebbe stato costretto ad abbatterlo e sostituirlo. Sapeva già che non sarebbe stato facile e gli sarebbe costato una gran sofferenza. Era affezionato a lui. Nel silenzio e nella solitudine della campagna era l’unico a tenergli compagnia.
Salì sul carretto e si sistemò alla guida, poi diede un leggero scossone alle briglie e partirono alla volta della città.
La sera si avvicinava e il sole era ormai quasi del tutto calato, solo una sottile striscia di luce bianca rigava l’orizzonte, come uno spiraglio attraverso una porta socchiusa. L’aria fresca della sera gli accarezzò le guance e Tommaso già pregustava la minestra calda che gli avrebbe preparato la moglie.
L’odore degli alberi e del verde che lo circondava si spandeva ed evocava tutto un insieme di sensazioni che lo riportavano alla sua infanzia, quando si divertiva a giocare arrampicandosi sui rami più alti degli alberi. Sua madre Santina - un donnone tutto d’un pezzo - lo riprendeva sempre dicendogli di scendere, che i rami non avrebbero retto il peso, ma Tommasino - così lo chiamava lei - se ne fregava e restava lassù a osservarla dall’alto in basso con un senso di superiorità che pian piano era andato affievolendosi negli anni.
La strada era sgombra, solitaria, disseminata di pietre che si stagliavano fuori dal terreno come piccolissimi monti e che facevano sobbalzare il carretto al loro incontro. Ai lati della strada vi erano talvolta dei bassi cumuli di pietre che formavano dei muretti, ma molti di essi erano diroccati perché non avevano retto con la pioggia o perché erano stati costruiti in modo approssimativo.
Fu proprio su uno di quei muretti che la vide. Stava seduta su di esso ed era tutta vestita di nero. Da lontano non appariva nemmeno come una figura umana, ma come una massa indistinta, una macchia scura in contrasto con i colori ambrati delle spighe di grano. Tommaso dovette stringere gli occhi più d’una volta per metterla a fuoco mentre si avvicinava col carretto.
Quando finalmente ne ebbe un’immagine chiara, capì che era una donna. Indossava un lungo abito nero, con pizzi e merletti dello stesso colore, e una veletta sulla testa che copriva i capelli corvini. Aveva un’apparenza molto elegante, fuori luogo per il posto in cui si trovava. Teneva lo sguardo fisso per terra e aveva un’espressione così addolorata che Tommaso provò compassione per lei.
Arrestò il carretto proprio davanti al muretto su cui sedeva e dopo averle lanciato una veloce occhiata si chiese se si fosse persa. L'asino, per canto suo, sembrava non voler sostare in quel luogo e in un certo modo quasi si imbizzarrì innanzi a quella figura solitaria, riacquistando per un momento il vigore che aveva caratterizzato i suoi primi anni di lavoro al servizio dell'uomo. Tommaso cercò di rabbonirlo con carezze per far sì che si tranquillizzasse e un poco l'animale cedette sotto il peso di quelle moine.
L'uomo poté così rivolgersi alla donna.
«Desidera un passaggio, signora?»
 Quest'ultima non si mosse, non gli rivolse nemmeno la parola, rimase con lo sguardo fisso sul terreno con quell’espressione contrita e il labbro inferiore imbronciato, quasi fosse sul punto di piangere.
«Si sente bene?» chiese Tommaso stranito. «Se ne ha bisogno accompagno sua signoria in paese» propose. Fu in quel momento che la donna sollevò leggermente il viso e si mostrò in tutta la sua pallida bellezza. Il suo sguardo era spento, glaciale nel vero senso della parola, le iridi sembravano due pezzi di ghiaccio bianco tanto erano chiare. Tommaso si domandò se fosse cieca, ma la donna pareva proprio fissarlo dritto negli occhi. Quello scambio di sguardi durò qualche secondo, Tommaso cominciò a provare uno strano disagio. La donna tornò a puntare il terreno con i suoi occhi vuoti e Tommaso, stufo di essere ignorato, diede uno strattone alle briglie e ripartì verso la città.
Ormai si era fatta sera e pian piano il rosa del cielo lasciava spazio a strati di porpora che avvolgevano la fioca lucentezza della luna ora apparsa tra le nuvole. Gli alberi si stagliavano con le loro fronde nel cielo come sagome spettrali, gli uccelli correvano al riparo presso i loro nidi e il silenzio era interrotto solo dal frinire delle cicale.
Tommaso si voltò una volta, una sola, poco dopo essersi congedato dalla donna, ma già non la vedeva più. E non perché si fosse fatto ormai troppo buio per riuscire a distinguere qualcosa, ma proprio perché sembrava essere scomparsa, quasi si fosse nascosta. Non avrebbe saputo dire dove, perché attorno a quel muretto non c’era nulla se non la distesa di spighe di grano, tanto bassa però ancora che anche nascondendovisi ne avrebbe scorto le forme con i suoi abiti funerei. Improbabile che si fosse nascosta dietro il basso muretto, tantomeno dietro un albero - per raggiungere il più vicino avrebbe dovuto correre parecchio e con non poca difficoltà tra le spighe con quella lunga veste; l’avrebbe certamente vista nell’atto se così fosse stato.
Erano passati solo pochi secondi, ma era svanita nel nulla.
Tornò a guardare di fronte a sé e improvvisamente sentì una presenza al proprio fianco. Si voltò di scatto e sussultò terrorizzato nel trovarsi accanto quella donna. Nella paura aveva scosso le briglie e l’asino - con una potenza che prima non gli avrebbe attribuito - aveva aumentato il passo, facendo sobbalzare il carretto e velocizzare la corsa.
La donna teneva lo sguardo basso, il volto nascosto dalla veletta, non diceva una parola. Tommaso, ancora spaventato, si chiese chi diavolo fosse e come era finita sul suo carretto.
Con voce tremante glielo chiese, ma non ottenne risposta. Allora tirò le briglie per fermare il carro, ma l’asino non rispose ai suoi comandi e proseguì verso la sua meta, quasi volesse fuggire per conto proprio. Tommaso tirò più forte, ma a nulla valsero i suoi sforzi. Tenne gli occhi fissi sulla donna e questa finalmente si scompose dalla propria immobilità marmorea per voltarsi lentamente verso di lui.
Tommaso sgranò gli occhi per lo sgomento, il sudore sulla sua fronte parve cristallizzarsi e diventare freddo come stalattiti. Il volto della donna non era più ora di una fulgida bellezza - non del tutto almeno -, per metà quel suo bianco candore aveva lasciato spazio a qualcosa di altrettanto bianco, ma d’aspetto macabro. La donna era per metà scheletro e la pelle della metà del volto integro sembrava incollata su quel teschio come una maschera.
Tommaso trasalì e sbiancò anche lui, una morsa gli strinse il petto e gli gettò dolori lancinanti su tutto il corpo. Una vampata di calore gli salì dal collo e finì sulle tempie e fin sopra la punta delle orecchie. I suoi occhi persero di lucidità e d’un tratto tutto si fece sfocato, quella visione orripilante fu annebbiata per intero e si sentì cieco.
Poco dopo, tenendo la mano ancora salda al petto mentre stringeva la camicia sporca e usurata, stramazzò lì dentro il carretto e rimase così, con bocca e occhi spalancati, e questi, vitrei, puntavano verso la luna candida e le stelle che cominciavano ad affacciarsi nel buio per farle compagnia.
L’asino, che poco prima si era messo a correre in una fuga disperata, arrestò la propria corsa e il carro si fermò. Per qualche momento l'animale parve indugiare, ma nulla ormai più lo spaventava. La sensazione di inquietudine che si era impossessata di lui era adesso passata del tutto, riprese quindi il suo cammino con estrema tranquillità trasportando sul carro - che ora si sarebbe potuto definire funebre - il povero Tommaso, rimasto solo e con quello sguardo terrorizzato, immobile come una statua di gesso. La donna in nero che aveva costituito la sua ultima visione era scomparsa di nuovo, aveva tirato i dadi della sorte e fatto la sua scelta portando con sé nell’oscurità l’anima del contadino.



Fab Draka

Il nuovo video di Carmen Consoli - Sintonia Imperfetta




Quel pomeriggio si passava da un divano all'altro
qualunque frase era ingombrante in pieno Agosto
e più chiedevo più attenzioni e un minimo di slancio
mentre l'arrosto di tua madre mi rendeva omaggio
Ah voglio vivere così
col sole in fronte
l'amore ai tempi dei miei nonni era sognante
Ricordo come fosse ieri il nostro primo incontro
tu eri un po' ubriaco
intento a fare colpo
Parlavi di finanziamento a tasso agevolato
cesso di transazione alle mie ricerche di mercato
Ah voglio vivere così
col sole in fronte
L'amore ai tempi dei miei nonni era sognante
Tra di noi regnava un'ostinata consuetudine
una sintonia imperfetta
Tra di noi regnava una profonda solitudine
una forza d'inerzia
una sintonia sommersa
Quel pomeriggio si passava da un divano all'altro
mentre studiavo come dirti che ti avrei lasciato
tu già dormivi al quarantesimo di Roma Lazio
pensavo io a tua madre e al cane da portare a spasso
Ah voglio vivere così
col sole in fronte
L'amore ai tempi dei miei nonni era sognante
Tra di noi regnava un'ostinata consuetudine
una sintonia imperfetta
Tra di noi regnava una profonda solitudine
una forza d'inerzia
una sintonia perversa
Tra di noi regnava una profonda solitudine
una forza d'inerzia
una sintonia imperfetta
Quel pomeriggio eri un tutt'uno col divano grigio
l'avrei dovuto già capire sin dal primo incontro

venerdì 27 marzo 2015

RACCONTO HORROR: VEGLIA NOTTURNA

VEGLIA NOTTURNA - di Fab Draka





Tra le soffici lenzuola di seta Donna Elena si rivoltava da una parte all'altra, scuotendo il letto come se una forza infernale la possedesse. Da qualche tempo la madre le appariva in sogno, cercava di parlarle, le labbra livide di morte si muovevano, ma non ne usciva suono. Sembrava essere accorsa da lei in gran fretta, impaziente di confidarle un segreto. Agitava le mani lanciando urla di silenzio nella notte placida.
Elena cercava più volte di decifrarne le labbra che si muovevano in modo troppo rapido perché si potesse capirle. Così si svegliava, gli occhi spalancati nel buio, il respiro affannato, la fronte e il petto imperlati di sudore. Prendeva pian piano fiato finché non si tranquillizzava, allora cominciava a ispezionare la propria stanza, quasi fosse in cerca di un segno, una traccia della presenza della madre. Non trovava mai niente, ovviamente, ma le capitava spesso di domandarsi se quello fosse veramente un sogno. Era così vivido e sua madre così reale che le sarebbe parso di poterla toccare se solo avesse allungato il braccio.
Al mattino mentre sedeva a colazione col padre decise di rivelargli i suoi timori. La domestica Sarina aveva portato frutta fresca, fette di pane imburrate o addolcite col marsala e uova sode farcite. Di solito Elena mangiava di gusto, ma quella mattina tutto aveva un aspetto poco invitante. Le uova emanavano uno strano odore sulfureo e ciò le riportava alla mente una visione della madre che bruciava tra le fiamme dell'Inferno. Non sapeva se l'avesse immaginata in una di quelle apparizioni oniriche tanto vivide, ma la scena le rivoltava le budella e il cibo aveva adesso un sapore e un odore che la disgustavano. Anche le posate le facevano uno strano effetto e ora il coltello da burro, all'apparenza innocuo, aveva un che di minaccioso. La frutta poi, per fresca che fosse, le dava l'impressione di doversi aprire da un momento all'altro, brulicante di vermi. Le pareva quasi vederli muoversi sotto la buccia giallastra, intenti a cercare una via di fuga. E la cosa la inorridiva a tal punto da farle posare le posate sul piatto senza aver ancora toccato cibo.
«Padre» iniziò pacata, «Stanotte mi è capitato di sognare la mamma.» Il nominarla sembrò scuotere una nota dolente nell'animo del padre, che con tanta cura faceva sempre attenzione a non toccare l’argomento. «Sono già parecchie notti che la sogno in modi orribili.»
L’uomo si irrigidì e rimase con la forchetta sospesa a mezz’aria. Aveva appena infilzato un pezzo d’albume sodo e questo si stava tenendo pericolosamente in equilibrio sulla posata. Don Riccardo, che solitamente era un uomo paziente, fece cadere la forchetta sul piatto con un tintinnio. Chiuse gli occhi e sembrò voler raccogliere le forze per sopportare anche quella prova cui veniva sottoposto, sbuffò e i suoi baffi vibrarono lievemente sotto le narici. Elena capì di averlo turbato e avrebbe preferito non aggiungere altro, ma quel pesante senso di inquietudine non se ne sarebbe andato altrimenti.
«Elena, mi era parso di essere molto chiaro a riguardo.»
La ragazza abbassò lo sguardo sul piatto e annuì piano col capo, ma non si diede per vinta.
«Credo solo che volesse dirmi qualcosa di importante...» aggiunse, gravando la pena del padre.
«Era solo un sogno Elena, adesso mangia.»
«Non ho appetito» rispose la ragazza con una nota di delusione nella voce. Il padre ne rimase sorpreso. Sua figlia non si sottraeva mai a un pasto, seppure frugale, e ciò l'aveva resa formosa sui punti giusti. Il vitino succinto le faceva apparire il seno ancora più abbondante e la gonna ricadeva con tanta grazia sui fianchi che il suo fisico avvenente era diventato parecchio appetibile per i vari spasimanti che si presentavano a chiedere la sua mano. Il suo incarnato poi era di una perfezione assoluta, di un rosa candido soprattutto sulle gote, ma quella mattina il pallore livido sulla fronte e sotto gli occhi sembravano averle sottratto parte del suo fascino, tanto da farla apparire ammalata.
Nessuno avrebbe voluto sposare una donna malata se non per interessi meramente ereditari. Ma ciò non aveva grande importanza, poiché don Riccardo si era sempre rifiutato di accettare qualsiasi proposta di matrimonio rivolta alla figlia. Non tanto perché non volesse separarsi dalla sua amata prole, ma piuttosto perché non riteneva quei spasimanti all’altezza. A Elena non dispiacevano quelle premure paterne, fintanto che non apparivano ingiustificate o troppo restrittive. E il matrimonio in ogni caso non era qualcosa a cui pensava in quel periodo. C’erano cose che le premevano di più, come quei sogni terrificanti.
Don Riccardo fece un grande sforzo per porre la domanda che la figlia si aspettava di ricevere.
«Di cosa trattavano questi sogni?»
La ragazza, sorpresa, volle subito dare una descrizione precisa di tali apparizioni. Il padre ascoltò finché gli fu possibile, poi troppo turbato dal racconto della figlia alzò una mano per interromperla.
«Basta!» sbottò. «È anche più di quanto possa sopportare.»
Elena protestò. «Ma era così reale!» insistette.
Don Riccardo batté forte il pugno sul tavolo, facendo sussultare anche la povera Sarina che stava portando un vassoio e che lasciò cadere rovinosamente, facendo scivolare tutto quanto per terra. L’uomo la riprese con un’occhiataccia e la domestica non osando guardarlo in faccia, ma sapendo con certezza che la stava incenerendo con lo sguardo, si affrettò a raccogliere e pulire tutto con grande rapidità.
«Non essere sciocca» disse poi Don Riccardo rivolgendosi alla figlia. «Le storie di fantasmi sono per gli stupidi e i superstiziosi» aggiunse volgendo ora lo sguardo verso Sarina.
«Padre ho uno strano presentimento» continuò Elena quasi in un sussurro. «A volte penso che la morte della mia cara mamma non sia stato un semplice incidente.»
«Cosa vorresti insinuare?» si infuriò l’uomo.
«Niente, padre» rispose Elena facendosi piccola piccola.
Don Riccardo notò la tristezza nello sguardo della figlia e si calmò un poco, riprese il suo tono pacato e questa volta si rivolse a lei con più dolcezza.
«Cara Elena, sai bene quanto fosse malata la tua povera madre.» La ragazza annuì malinconica e spezzettò col coltello il tuorlo dell’uovo, ma non aveva intenzione di mangiarlo, era solo un modo come un altro per distruggere quel disgusto che provava dentro. «Quel malaugurato giorno non sappiamo cosa fosse preso a tua madre - che Dio l’abbia in gloria! -, nessuna delle domestiche si era accorta che si era alzata dal letto. Sappiamo solo come l’abbiamo trovata, priva di vita in fondo alle scale.» Si incupì a quel pensiero e la voce gli tremò un po’.
«Però padre… se non si fosse trattato di un incidente?»
«Pensi che tua madre avrebbe potuto…?» Scosse la testa con vigore. «No! È fuori discussione!»
«Perché? La mamma era tanto malata, forse desiderava non soffrire più.»
L’idea del suicidio provocò un tumulto nel cuore dell’uomo e un pesante silenzio li circondò. Don Riccardo rifiutava di pensare che la moglie si fosse tolta la vita. Sapeva bene che lei lo aveva sempre considerato un peccato mortale e che avrebbe temuto di finire all’Inferno anche se solo avesse pensato di compierlo.
Tuttavia in qualche modo Don Riccardo doveva essere rimasto suggestionato dalle parole della figlia, perché quella notte anche lui sognò la moglie.
La vide fluttuare sopra il proprio letto e leggera come un soffio sembrava un fazzoletto sventolato in aria. Non la vedeva in trasparenza, come si era sempre aspettato di vedere uno spettro, ma era un’immagine nitida che si stagliava sul tendaggio del suo baldacchino. Librava poco più in alto di lui e teneva le mani come artigli pronti a ferirlo, ma la donna non sembrava avere tale intenzione, quanto invece pareva volersi aggrappare a qualcosa, alla vita forse, oppure a quel sogno - quasi temesse di esserne strappata via all’improvviso.
Don Riccardo la guardò con stupore, era la prima volta che la rivedeva dacché era morta. La donna lo fissava implorante, parlava in silenzio e lui acuì l’udito per cercare di capire cosa volesse dirgli, ma non ci riuscì. La moglie cominciò a dimenarsi come un’ossessa, urlando senza voce, tirandosi i capelli con forza, lacerandosi le guance con le unghie, poi scoppiò come un fuoco e si trasformò in una torcia umana che svolazzava sopra il suo letto. Era tanto reale che avrebbe potuto incendiare tutta la stanza.
Il marito la osservò con un’espressione di terrore dipinta sul volto e urlando di paura si mise a piangere, chiedendole di lasciarlo in pace, di andare via e di non tormentarlo. L’uomo coprì il volto in lacrime con le mani tremanti e quando le lasciò scivolare pian piano fino al mento, l’immagine infuocata si era dissolta. Si domandò se fosse stato tutto reale e si punzecchiò il braccio e la faccia. Faceva male, quindi era sveglio. Si alzò dal letto e con raccapricciò notò che le lenzuola erano cosparse di ceneri.
La cosa lo sconvolse a tal punto che cominciarono a palesarsi ipotesi terribili nella sua mente. Che la moglie si fosse davvero alzata da quel letto ormai diventato la sua prigione per liberarsi dal male che l'affliggeva? E se invece volesse solo provare un ultimo brivido vitale? L'avevano trovata sul pavimento del pianterreno, alla base delle scale, contorta in una posa innaturale, come se nella caduta si fosse rotta alcune articolazioni. In quel momento gli era sembrato che tutto fosse finito, ma forse non era realmente così. E adesso una parola gli martellava in testa prepotentemente. Cercava di scacciarla via, ma sapeva che poteva essere vero. La ricacciava dentro, ma quella tornava a galla con tutti gli orrori che essa presagiva. Catalessi.
Sarebbe stato inutile ormai scoprire una verità sconcertante. Se ciò che pensava era accaduto davvero, era probabilmente troppo tardi per rimediare. Eppure sentiva che se non se ne fosse assicurato avrebbe portato per sempre con sé il tormento del dubbio. Poteva pur sempre esserci una minima possibilità di riuscita.
Il mattino seguente, dando retta al presentimento che lo assillava, fece quindi dare ordine di disseppellire e riesumare il corpo della moglie. Il cimitero appariva molto meno tetro con tutta quella luce che lo illuminava, ma dentro di Elena e Don Riccardo i cuori erano cupi e angosciati. Quella era una cosa che faceva male a entrambi, ma volevano sapere, DOVEVANO sapere.
Una nuvola passeggera si posizionò proprio di fronte al sole e una lunga ombra scura coprì tutti loro e la tomba, su cui sovrastava la grande statua in granito di un angelo. I becchini continuarono a scavare con lena finché una delle loro vanghe colpì una superficie solida nella mollezza della terra umida. Usarono le mani per spazzolare quello strato di sabbia scura che copriva la bara e la tirarono su per riportarla alla luce.
Don Riccardo non vedeva quella bara da giorni e la ricordava ancora nei minimi dettagli, l’aveva scelta con cura all'impresa di pompe funebri. Era di legno d’abete, con modanature degne d’un artigiano e una grossa croce in oro inchiodata sul coperchio. L’interno era ben imbottito e rivestito di seta purpurea.
Quei ricordi gli fecero scivolare una lacrima furtiva sulla guancia ben rasata e lui la asciugò rapido col dorso della mano.
Elena stava in silenzio, con le mani giunte sulla gonna, in preghiera. Lo sguardo abbattuto sulla cassa, gli occhi arrossati per il pianto silenzioso, le labbra che vibravano leggermente a ogni singulto, tirava di tanto in tanto su col naso ed era l’unico suono che emetteva.
I becchini riportarono sul verde dell’erba sopra la fossa quella bara pesantissima. Donna Berta - questo era il nome della madre di Elena - era stata per parecchi mesi malata, ma ciò non aveva minato il suo appetito, per cui non era smagrita molto dal peso abbondante di cui faceva vanto in vita.
Vedere quella cassa di legno acuì il senso di inquietudine della povera Elena, già abbastanza provata dalla decisione del padre di dissotterrarla. E in quel momento le sovvennero quei sogni terribili che l’avevano tormentata per parecchie notti e quelle leggende che si narravano in giro riguardo ai cimiteri. Storielle di contadini per spaventare i propri figli e farli desistere dall'addentrarsi in quei luoghi sacri.
Quelle storie parlavano di strane figure che si aggiravano fra le tombe e di lamenti atroci e spaventosi che parevano appartenere alle anime in pena. Ne aveva sentite spesso di quelle favole del terrore dalla bocca della loro domestica Sarina, per questo il padre la considerava solo una zotica superstiziosa. Però c’erano volte che Elena le aveva quasi creduto, perché le aveva raccontate con tanto animo che sembrava quasi ne fosse stata testimone. Le aveva narrato di quei lamenti, urla strazianti nel silenzio cupo e desolante del cimitero. Cominciò a pensare che doveva essere stata Sarina a influenzarla, portandola a fare quegli incubi.
I becchini presero il piede di porco e facendo leva scoperchiarono la bara. Elena gettò un urlo di orrore e aggrappata al braccio del padre si lasciò svenire, scivolando sul terriccio smosso della fossa.
Don Riccardo incredulo trattenne la figlia, ma mantenne lo sguardo fisso su quell’immagine insopportabile. Perfino i becchini ne furono inorriditi.
Dentro la bara, in una posa innaturale, stava il cadavere di Donna Berta. Le sue mani stavano protese in avanti come artigli, solo che le dita erano tutte scarnite, le unghie erano state strappate via e quelle che restavano ancora attaccate alle dita erano tutte spezzate. Sul cranio livido gli occhi scavati nelle orbite erano aperti e lattiginosi, ma mostravano ancora l’espressione di terrore che la donna aveva provato prima di spirare. Le guance erano rigate di graffi. La bocca era storta in una smorfia inquietante, rigida e contratta. La seta del coperchio era tutta lacera e sul legno sottostante erano rimaste incisioni di profondi graffi, inchiodate su di esso vi erano le unghie mancanti alle dita.
I timori di Don Riccardo si erano avverati in tutto e la cosa che lo sgomentava ancor di più erano quegli elementi che facevano intuire una morte avvenuta da poco. Come se quello che aveva aleggiato sopra il suo baldacchino non fosse stato uno spettro bensì una visione di morte che si stava realizzando in altro loco. E il momento in cui l'aveva vista bruciare era stato probabilmente quello in cui era stata rapita alla vita, destinata così a diventare polvere.




martedì 17 marzo 2015

Il potere è nelle nostre mani







"Ora non è il momento di pensare a quello che non hai. Pensa a quello che puoi fare con quello che hai." diceva Ernest Hemingway nel suo romanzo "Il vecchio e il mare". E aveva proprio ragione. Spesso ci abbattiamo perché non otteniamo quello che vogliamo, ma non bisogna arrendersi. E' necessario mettere a disposizione le cose che ci rendono unici e non smettere mai di lottare per quello che desideriamo. Il potere è nelle nostre mani.






Fab Draka

venerdì 13 marzo 2015

PRINCIPI AZZURRI A LUCI ROSSE, ESTRATTO #9



"Arrivato il mio turno ero agitatissimo [...]. Entrai nella stanza e mi ritrovai davanti di nuovo quel tizio, Tobias Corto, solo che questa volta era accompagnato dal suo assistente (il segretario sculettante) e quattro ragazzi, tutti molto carini. Con uno di loro mi scambiai delle occhiate molto intense.
Era afroamericano e aveva tratti facciali delicati ma allo stesso tempo decisi e mascolini. Gli occhi verde mare, cosa rarissima per uno con la sua carnagione, facevano da contrasto e lanciavano sguardi penetranti. Portava i capelli rasati a zero ed era vestito alla moda, inoltre profumava di qualcosa di dolce e intenso al cocco (insolita scelta per un ragazzo mascolino come lui). La sua bocca era molto sensuale e mentre mi studiava si delineò in un bel sorriso bianco.
«Allora.» cominciò Corto. «L’ultima volta il nostro incontro è stato così breve che non mi hai dato il tempo di conoscerti. Parlaci un po’ di te.» Non sapevo da dove cominciare.
«Cosa volete sapere di preciso?» chiesi impacciato, sentendomi improvvisamente a disagio. Mi sembrava di stare davanti a una corte di giudici.
«Raccontaci qualcosa della tua vita» disse il ragazzo dallo sguardo intenso.
«Beh, vivo in questa città da quasi un anno. Sono venuto qui con la speranza di fare una vita migliore, senza pressioni di alcun tipo. I miei genitori sono dei tipi un po’ particolari...» dissi con una risatina, ma la cosa non risultò molto divertente né per me né per loro. «Ho già fatto questo lavoro, dunque ho un po’ di esperienza.»
«Hai già lavorato per un’agenzia di escort?» chiese l’assistente di Corto. Rimasi per un attimo senza dir nulla. «Allora?» chiese impaziente.
«No, a dire il vero. Ho lavorato... in proprio» risposi. Mi rivolse un sorriso maligno.
«In che senso?» chiese uno dei quattro ragazzi. Aveva i capelli a spazzola e un piercing al lobo a forma di teschio. Un altro gli sussurrò all’orecchio qualcosa e si mise a ridere sotto i baffi, ma il ragazzo afroamericano gli ordinò di smetterla.
Anch’io ero stufo di quei risolini e di quell’arroganza. Perché farmi intimidire da quel mucchio di isteriche? Facevano il mio stesso lavoro anche se per mezzo di un’agenzia, ma questo non li rendeva certo migliori di me.
«Cos’hai da ridere? Ti diverte che abbia fatto dei sacrifici per andare avanti? Magari tu hai fatto subito la bella vita, ma sei forse una star? Se proprio vuoi saperlo oltre a prostituirmi ho anche lavorato per un fotografo, ho fatto il modello. Ma questo tu non lo sai, non puoi saperlo, perché non mi conosci.»
«Senti dolcezza, non ti scaldare...» disse il tipo che rideva.
«Ehi, è vero!» lo interruppe l’unico dei quattro che fino ad allora non aveva parlato. «È quello della pubblicità di Aladino!» Il tipo che rideva lo incenerì con lo sguardo, poi si rivolse di nuovo a me.
«Per me puoi aver fatto quello che vuoi» disse, «Ma qui dentro la star sono io.»
«Ah sì? E potresti dirmi il tuo nome? Perché non ti ho mai visto in vita mia.»
«Brett Stevens. Lieto
«Non posso dire lo stesso» risposi sconcertandolo.
«E tu assumeresti un tipo così, Toby?» disse Brett a Corto. Quest’ultimo lo ascoltò ma non rispose.
«Perché no?» disse il ragazzo afroamericano. «È carino e poi ha già fatto l’escort. Non è un novellino.» Mi sorrise e ricambiai ringraziandolo. «Comunque il mio nome è Kieran.» disse alzandosi per stringermi la mano.
«Il mio nome è Kieran. Gnè gnè gnè» gli fece eco Brett.
«Ma sei sempre così antipatico?» gli chiesi mentre stringevo la mano a Kieran. Per poco Brett non mi uccise con lo sguardo.
«Questo è tosto!» disse il ragazzo che aveva riconosciuto in me l’Aladino della pubblicità. «Io sono Jamie.» disse venendomi incontro per salutarmi.
«E io Jake.» disse il ragazzo con i capelli a spazzola.
Il tutto era molto strano, perché fino ad allora mi erano stati ostili, ora invece mi trattavano alla pari. Doveva essere scattato qualcosa, forse quel Brett stava antipatico anche a loro. Osservai Corto mentre venivo accolto dai ragazzi, senza capire se quello significasse avere ottenuto il posto o meno. Lo guardai dritto negli occhi e lui sorrise. Allora mi fu chiaro, ero uno di loro."

Tratto dal romanzo Principi azzurri a luci rosse, capitolo 24 "Dieci piccole amiche".



Fab Draka


giovedì 12 marzo 2015

PRINCIPI AZZURRI A LUCI ROSSE, ESTRATTO #8



"Quel venerdì mi diressi all’indirizzo indicatomi, era lì che si trovava lo studio della dottoressa O’Neil. Mi spiegò che il suo paziente, Padre Peter, aveva avuto alcuni problemi negli ultimi tempi a portare avanti i propri incarichi. Faceva spesso “pensieri impuri” riguardo uomini che frequentavano la sua parrocchia e se tali fantasie fossero continuate anche dopo averle sfogate, avrebbe rinunciato per sempre alla propria posizione. Il mezzo tramite cui avrebbe deciso se lasciare o meno la Chiesa sarei stato io.
Quando conobbi Padre Peter mi disse che il nostro incontro era stato voluto dal cielo. Mi spiegò che quando aveva preso la decisione di rivolgersi a una sessuologa, quest’ultima le aveva proposto in principio di comprare una rivista porno gay per cominciare a sondare la propria sessualità. Ed era stato lì che Padre Peter aveva scovato il mio annuncio, prendendolo come un segno del Signore visto che il mio nome era Benedict. Per un attimo mi ero domandato se la sessuologa non si sbagliasse sui propri rimedi terapeutici.
Non ero molto persuaso dalla faccenda ed ero convinto che Dio non leggesse riviste gay. Non ero neanche molto d’accordo sul fatto che quell’uomo dovesse testare la propria omosessualità per lasciare la Chiesa. A mio parere il solo fatto di sospettarlo avrebbe dovuto metterlo in guardia e farlo decidere a riguardo, ma si trattava di un lavoro e sarei stato pagato per svolgerlo.
Quando entrai nell’ufficio lui era già lì che aspettava seduto davanti alla scrivania della O’Neil. Non era giovane e neanche bello, ma non importava perché sarei stato pagato caro (non volli sapere come e dove si fosse procurato i soldi il prete). Gli strinsi la mano, un gesto che sembrò procurargli già un brivido di piacere. La cosa mi mise un po’ d’inquietudine, ma feci finta di nulla. Salutai anche la sessuologa e mi misi a sedere.
«Bene,» iniziò la O’Neil, «La terapia che ho consigliato a Padre Peter è quella di realizzare e quindi soddisfare la sua fantasia, signor Benedict.»
«Mi chiami solo Benedict» dissi io guardando con la coda dell’occhio il prete, che mi sembrava una pentola a pressione. Era talmente infoiato che per un attimo ebbi l’impressione che non avrebbe saputo resistere dallo scoparmi lì, davanti alla sessuologa.
«Io sono Tracy.» Mi sorrise gentilmente e continuò. «Padre Peter sembra non riuscire a superare il desiderio di andare a letto con una persona del suo stesso sesso. E dopo attente valutazioni ritengo necessario realizzare questa fantasia per intraprendere la strada della guarigione. Ovviamente, massima discrezione.»
«Non ho capito bene, vuole guarire dall’omosessualità?» chiesi.
«No, io non mi ritengo omosessuale» prese la parola il prete. «È solo che ultimamente ho questa fissazione e credo di poter tornare alla serenità interiore solo dopo averla soddisfatta.»
Pensai che non fosse una cosa molto sensata e nemmeno molto religiosa, ma non ero Dio e mi importava ben poco della salvezza dell’anima di quel prete."



tratto dal romanzo Principi azzurri a luci rosse, capitolo 23: "Benedetto sia colui che viene nel nome del Signore"


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PRINCIPI AZZURRI A LUCI ROSSE, ESTRATTO #7




"Alexis in una cosa aveva pienamente ragione, bisognava avere stile, ma nella mia filosofia rientrava anche il saper provocare. Per cui nei miei nuovi annunci mantenni il nome con cui Alexis mi aveva battezzato, ma cambiai foto, proponendone una che mi aveva scattato Jasper.
Per rendermi sexy mi ero fatto fotografare sotto il getto della doccia con addosso solo una camicia bianca e un paio di slip, anch’essi bianchi, che lasciavano intravedere ciò che vi stava sotto. In un certo senso venivo benedetto dall’acqua, come in un battesimo."


tratto dal romanzo Principi azzurri a luci rosse, capitolo 23 "Benedetto sia colui che viene nel nome del Signore".



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lunedì 9 marzo 2015

RIFIUTATO DA COPPIE ETERO, ADESSO VIVE IN UNA FAMIGLIA GAY



Dopo la terribile storia del ragazzo aggredito perché figlio di una coppia gay, una notizia che risolleva invece gli animi.
Il piccolo Paolo, un bambino di Rio de Janeiro di quattro anni, dopo essere stato rifiutato da due coppie eterosessuali perché definito "troppo nero" e "troppo brutto e ritardato", ha finalmente trovato amore incondizionato in una famiglia gay. Gilberto Scofield Junior, giornalista di "O Globo", e il suo compagno Rodrigo Barbosa hanno adottato il bambino, che oltre a essere stato rifiutato più volte, aveva in passato subito anche maltrattamenti dai genitori biologici (entrambi alcolizzati).
Adesso Paolo vive felicemente con i due genitori adottivi, che ricordano ancora con entusiasmo il primo incontro col bambino: "I nostri cuori erano colmi di speranza e siamo scoppiati in lacrime per la gioia", e aggiungono "Non potrebbe essere più felice della sua nuova vita... Siamo una famiglia normalissima, due padri col loro figlio, due gatti e un cane".
Questo è un chiaro esempio di come l'omogenitorialità non debba spaventare o apparire come qualcosa di diverso dalla "famiglia tradizionale", si tratta di dare amore a chi ne ha più bisogno. Un messaggio di speranza per tutti quei bambini che purtroppo sono stati abbandonati o non hanno una famiglia su cui contare.





Fab Draka

sabato 7 marzo 2015

Figlio di coppia gay aggredito, ora è in coma


Un quattordicenne, figlio adottivo di una coppia gay, è stato violentemente aggredito in una scuola pubblica di São Paulo. Il ragazzo già da tempo veniva preso di mira da dei bulli proprio per la sua situazione famigliare. Giovedì si è verificato l'episodio più grave.
La vittima si trovava a scuola, dove studia anche il fratello maggiore di un anno più grande, che sentendo le urla del fratellino è accorso subito nel corridoio dove si è consumata l'aggressione per soccorrerlo.
Il referto dei medici ha diagnosticato al ragazzino un aneurisma cerebrale che ne ha causato il coma farmacologico. Adesso la vittima verte infatti in condizioni molto gravi.
Il padre, Márcio Nogueira, non ha dubbi sulla matrice omofoba del crimine e ha ammesso di non sapere nulla sui pregiudizi subiti dal figlio.
“Il suo professore ci ha informati solo dopo ciò che è successo. Siamo tristi e abbiamo deciso di rivelare l'accaduto alla stampa in modo che non si possa ripetere con altri bambini” ha riferito ai media.



Fab Draka

martedì 3 marzo 2015

Recensione del libro "Sogni di sangue" di Lorenza Ghinelli



Enoch è un ragazzo affetto da artrite idiopatica giovanile. La sua è una vita difficile non solo per la malattia che lo affligge, ma anche per una madre rigida e dei compagni di scuola che lo prendono di mira. Nei suoi sogni Enoch (un personaggio probabilmente ispirato a Forrest Gump per via dei tutori alle gambe e della balbuzie) entra nei panni di un coccodrillo e vendica le angherie subite dai bulli di turno.
Se l'intento di questo libro era essere horror, la Ghinelli non è per nulla riuscita nel suo scopo. Mancano gli aspetti principali del genere: la suspense, i colpi di scena, un'ambientazione ben studiata e un ritmo serrato. Pur essendo un racconto che poteva risultare intrigante, è sviluppato in modo talmente approssimativo e sbrigativo che ti lascia insoddisfatto e deluso. Alla fine ti dà quasi la sensazione di aver letto l'embrione abortito del romanzo.
Un libro con tematiche che meritavano di essere maggiormente approfondite, come anche i suoi personaggi che risultano poco delineati. Un esempio ne è Dorotea, la madre di Enoch, una donna austera con segreti arcani che non si capisce dove abbia appreso e con quali scopi.
Anche i problemi sociali del protagonista a mio avviso potevano avere dei risvolti ulteriori, magari esplorando la vita privata dei suoi antagonisti, di cui viene fatto solo un accenno. I personaggi sono in effetti tutti poco delineati, anche Rebecca, la zingara esperta di egittologia che aiuta nelle indagini e che ha intuizioni piovute dal cielo, senza alcun nesso logico o ulteriore spiegazione.
Anche la storia d'amore fra Gino e Francesca è appena abbozzata.
C'è sicuramente l'uso di belle metafore, ma questo non compensa però i dialoghi banali, la trama scialba (la suspense si taglia col coltello da burro, per dire) e lo stile (sinceramente io non amo molto i libri scritti al presente).
Inoltre la storia del dio Sobek, dalle sembianze metà umane e metà coccodrillo, sembra un espediente buttato là per rendere la trama più ricca, senza però aggiungerle niente di più o darle un sapore diverso. I riferimenti alle onnipresenti blatte - che dovevano condurre la mente alla simbologia egizia - vengono poi inseriti nel contesto senza spiegare realmente a cosa servano.
Il finale è praticamente inesistente ed è questa, a mio avviso, la pecca maggiore. Non vi è un finale aperto a varie interpretazioni, non vi è proprio un finale. Non si capisce a cosa porti tutta la trama e soprattutto non vi è risoluzione al mistero che la avvolge. È lasciato tutto al caso.
Un libro, insomma, che si legge in un paio di ore senza impegno, anche per il numero scarso di pagine che lo compongono.

Autrice: Lorenza Ghinelli
Anno: 2013
Genere: horror
Punteggio: 1 stella

Fab Draka