domenica 23 dicembre 2012

Rieccomi qua con delle novità



Ciao a tutti, è da un po' che non mi faccio vivo e questo perché sono stato molto impegnato. A fine novembre ho avuto modo di entrare a far parte di un corso di formazione in Produzione e Post-Produzione Cinematografica e qualche giorno fa mi sono dedicato alla stesura di una sceneggiatura, il cui soggetto è stato selezionato per farne un cortometraggio.
L'inizio di queste vacanze natalizie, inoltre, mi ha riservato una sorpresa... Una casa editrice mi ha offerto un contratto editoriale. Dovrei essere la persona più felice del mondo, ma ovviamente mi hanno richiesto un compenso per tutelarsi. D'altronde sono un esordiente e si sa che per noi spesso non c'è spazio se non ti sei fatto già un nome. Ora mi chiedo se investire nel mio futuro potrà davvero portare a dei frutti o se mi ritroverò invece con un libro pubblicato, ma più morto di fame di prima (io che già non navigo nell'oro). Farsi un nome non è facile, come la vita dello scrittore di per sé (lo so, ho voluto la bicicletta e ora mi tocca pedalare), ma è stata una scelta per passione e le passioni sono dure a morire, specie se incominciano a interessarsi a te. Prossimamente vi farò sapere se ho deciso o meno di accettare o se invece continuerò la mia spasmodica ricerca di un editore. Nel frattempo ogni consiglio è ben accetto, à bientôt!

domenica 28 ottobre 2012

Ricordi del passato...




Poco fa cercando in vecchie scatole ho trovato i miei vecchi diari e le lettere che io e la mia migliore amica ci scrivevamo alle scuole medie. Sembra passato un secolo, neanche le ricordavo più. E leggendole mi sono reso conto di quanto si possa cambiare negli anni, di quanto si possa passare in fretta dall'età dell'innocenza a quella delle responsabilità e della durezza della vita. Ci sono momenti in cui ti chiedi "Ma io ero veramente così?" e ti sorprendi della risposta, perché non ti riconosci più in quelle parole. Si cambia molto rapidamente e si diventa altre persone, non sempre quelle che avremmo voluto essere. E' strano come ci si crei un'idea di sé totalmente diversa quando si è più piccoli. Spesso si è ingenui a quell'età, è vero, ma comunque ti fa uno strano effetto vedere come sei adesso e ricordarti come avresti voluto essere o come avresti voluto che la tua vita fosse. E' molto dolce comunque il sapere di aver avuto, anche se per un breve periodo di tempo, un'innocenza tale da farti pensare che nulla poteva andare storto nella tua vita, che tutto sarebbe andato nel verso giusto.
Sapere poi che certe persone continuano a restarti accanto e ti sostengono dopo tanti anni di amicizia è incoraggiante, dà un senso di benessere e per un attimo ti fa scordare che forse avresti potuto essere migliore se avessi fatto le scelte giuste...

mercoledì 3 ottobre 2012

Capitolo 1 di "Principi azzurri a luci rosse"

Ecco a voi il primo capitolo tratto dal mio nuovo libro "Principi azzurri a luci rosse". Buona lettura!


CAPITOLO 1: UN MONDO FALLOCENTRICO


Noi uomini siamo fissati col sesso, è il nostro migliore amico. Ci accompagna durante gli anni della crescita diventando come una droga, ci consola, ci fa sentire meglio e finiamo col non poterne fare a meno. La natura sembra averlo scritto nel nostro DNA.
Tutti in fondo siamo un po’ sporcaccioni, ma molti di noi sanno nasconderlo meglio di altri. Ci sono uomini che sanno quello che vogliono e come ottenerlo e altri che si atteggiano a gran rimorchiatori anche se non hanno nulla da offrire; c’è chi si vanta di esperienze sessuali inimmaginabili da mente umana, quando in realtà ha mezzo baciato una sconosciuta durante il gioco della bottiglia e chi invece il sesso lo fa, lo sa fare e anche bene.
A volte pare quasi lo scopo della nostra vita e quando ci avviciniamo alla meta sembriamo impazzire, il testosterone va a mille e noi uomini ci riduciamo a questo, ormoni in confusione.
A quelli come me poi il sesso piace ancora di più. Amiamo farlo in modo selvaggio, animalesco, dolce e a tratti violento, veloce oppure lento, purché sia intenso. Niente questioni in sospeso o sensi di colpa.
Ci piace perché ci fa sentire vivi, perché non ci dà da riflettere sul motivo della nostra incessante ricerca di corpi nuovi da amare, soddisfare, percepire mediante il solo sfioramento della pelle. A volte è un modo per sfuggire alla cruda realtà che ci relega ai margini della società, una specie di premio di consolazione. E trovare una sistemazione per il nostro affarino diventa quasi un’occupazione principale.
D’altronde noi uomini iniziamo ad affrontare la sessualità sin da piccoli. Passiamo circa il novanta per cento della nostra vita adolescenziale a esplorarla e la ricerca non si arresta mai. È un campo che portiamo in continua evoluzione e che abbraccia talvolta ogni singolo aspetto della nostra giovinezza.
Capita poi di essere talmente impazienti da voler a tutti i costi svuotare il proprio arnese senza curarsi delle conseguenze. Il tutto pare debba essere fatto al più presto possibile, quasi avessimo la data di scadenza stampata sull’uccello. E quando dopo tanta ricerca troviamo una persona che potrebbe anche amarci, tendiamo a considerarla più come l’occasione che si è venuta a presentare che come quella giusta, quella che ci cambierà la vita. Così finiamo col fare errori a volte irreparabili e perdiamo occasioni ben più rare di una semplice scopata.
Per cui, tirando le somme, si può notare come il sesso diventi talvolta un’arma per proteggerci dai sentimenti. Può essere tagliente, esplosivo, può ferirci, ma sa anche guarirci. A pensarci è molto simile all’amore, solo che quest’ultimo è più difficile da trovare. E conciliare le due cose non è sempre facile.
Da ragazzino mi chiedevo se potesse esistere il sesso senza amore. Adesso ne sono convinto. Esiste.
Troppe critiche? Affatto! D’altronde sono un uomo anch’io e rientro nel bel quadretto che ho appena descritto.
Mi chiamo Trent, ho 24 anni e di uomini ne conosco a bizzeffe. E quando dico “conosco” intendo proprio in senso biblico.
Sono omosessuale, di bell’aspetto e piuttosto giovane per il lavoro che ormai faccio da anni. Molti mi definiscono col termine gigolò, altri invece escort, accompagnatore, prostituto e tanti altri modi che non sto qui a elencare. A me piace la definizione che mi diede una volta un cliente: “puttano d’alta classe”. Ci si potrebbe chiedere cosa farà mai un prostituto per definirsi “d’alta classe”? Bene, lo spiego subito.
Lavoro per un’agenzia di escort strapagata, una delle migliori in effetti. Entrarci non è così semplice e bisogna essere proprio bravi per poterne far parte.
Ho una lista di clienti parecchio lunga, alcuni dei quali sono ormai degli habitué con cui vado a letto da anni, altri sono invece più recenti: i nuovi arrivi li chiamo io, perché come i vestiti di poco valore li indossi qualche volta e dopo li sostituisci con qualcos’altro di nuovo. Di solito, infatti, questi si fanno una scopata e poi spariscono.
C’è una grande differenza tra i clienti abituali e i nuovi arrivi. Questi ultimi ti contattano, ti pagano, ti scopano. Tutto qui. Gli abituali invece sono più premurosi. Con loro instauri un rapporto speciale, ti viziano, ti coccolano, ti amano, ma tu non ami loro e non glielo fai capire. Ti portano in vacanza con loro, ti fanno partecipare a grandi feste senza mai farti passare per un semplice prostituto, ma piuttosto come una sorta di compagno o al massimo un “nipote”.
Molti degli abituali sono infatti uomini maturi, vanno dai cinquanta ai settant’anni, sono ricchi, spesso potenti, con un lavoro eccellente, di rilievo e solitamente strapagato. Sono uomini di successo, ma a volte completamente soli e di questo mi sono reso conto nel corso degli anni. Non tutti sono affascinanti, ma ti vogliono bene e te ne vorranno sempre se tu non tradirai la loro fiducia.
I nuovi arrivi non hanno una fascia d’età prestabilita, possono andare da ragazzi che vogliono perdere la verginità a uomini frustrati dal lavoro e dalla famiglia. Molti sono infatti sposati, hanno figli, ma vogliono provare cose nuove (spesso sono tizi nella fatidica crisi di mezza età), sfogando e realizzando talvolta le fantasie più curiose. Altri lo fanno perché sono repressi sessuali. Questi clienti non hanno la possibilità di vivere la propria omosessualità in pubblico o di avere relazioni decenti anche nel privato, per cui passano al sesso facile.
Il servizio che offro è pulito, spesso selvaggio, ma non violento, a meno che il cliente non lo richieda. A riguardo ci sono delle clausole nel contratto che ci fanno firmare prima di entrare alla Whore-Haus, il nostro quartier generale del sesso, e questo perché a volte quando ci si lascia andare troppo può capitare di esagerare un po’.
Durante la mia carriera sono stati in molti a interessarsi a me e a volermi tirare fuori da questa vita per farmi vivere da sogno. Ma io ho già tutto ciò che si può desiderare, basta solo che lo chieda. Alcuni dei miei clienti mi fanno vivere nel lusso sfrenato e nonostante io non abbia mai avuto grandi pretese, loro cercano in tutti i modi di farmi stare nel totale agio. Sono stato in tantissimi posti da quando ho iniziato e credo di essere uno dei pochi a poter dire di aver visitato quasi tutte le magnifiche capitali del mondo. Ma non è sempre stato tutto rose e fiori. All’inizio non era così. All’inizio non ebbi scelta. All’inizio era uno schifo.


Iniziai a fare sesso molto presto, ero ancora un ragazzino. Avevo sedici anni e mi ritrovai con nulla per cui vivere o morire. Nessuno mi aiutò in quel periodo. L’unico su cui potevo contare era me stesso.
Vivevo in una famiglia in cui vi erano valori molto importanti. Valori che però per me non erano mai stati nulla più che parole, senza mai essere messi in pratica. Mio padre ci faceva vivere bene, lavorava in un’azienda importante e a casa era presente poco e niente.
Mia madre è sempre stata una donna forte e decisa. O almeno così appariva ai miei occhi. Era una di quelle persone che hanno sempre la soluzione pronta a tutto e solitamente risolveva i problemi in quattro e quattr’otto. Alcuni forse con troppa fretta. E nonostante non andassimo molto d’accordo a volte mi capita di pensare a lei.
Riusciva a provvedere a noi per non farci mancare nulla e a tirarci su di morale quando stavamo male o eravamo tristi. Parlo al plurale perché eravamo in due, io e il mio fratellino Michael di dieci anni più piccolo. E dico eravamo perché ormai sono considerato morto per la mia famiglia.
Quando vivevo ancora a casa con i miei non sopportavo Michael, era uno di quei bambini piagnucolosi che si lamentano per ogni piccola stupidaggine. Adesso a volte mi manca. Mi chiedo cosa gli abbiano raccontato mamma e papà di me.
Avevo una piccola famiglia molto unita, ma mi sentivo sempre solo. Una cosa che mi ha sempre fatto riflettere. Per questo motivo cercavo di trovare compagnia fuori dal focolare familiare.
Ero un ragazzino carino, ma dal viso troppo da bimbo per la mia età e per questo non piacevo molto alle ragazze. Loro volevano i fighi, quelli che sembrano già uomini. Ma ciò non voleva dire che non piacessi a nessuno. C’era anche chi apprezzava le mie fattezze da bimbetto indifeso. Alcuni hanno la fissa per questi tipi di ragazzi e quando vengono a sapere che sei pure vergine allora si attizzano di più, la cosa si fa interessante due volte per loro.
Non avrei mai sospettato che questo potesse accadere anche a me. Le attenzioni da parte sua furono sottili e impercettibili per me. Non ci eravamo mai presentati e io lo conoscevo solo perché veniva a scuola da noi a trovare il cugino, che era mio amico e compagno di banco. Durante la pausa di tanto in tanto si fermava a parlare con lui in cortile e una volta che c’ero anch’io mi fece un buffetto sul mento poco prima di andarsene, senza alcuna motivazione. Non sapevo nulla di lui, solo che era più grande di noi.
Da quella volta prima che lo rivedessi passarono un paio di mesi. A quei tempi ero ancora un po’ ingenuo e non mi accorgevo di cosa stesse accadendo intorno a me. Quel ragazzo per me non era nessuno, solo uno che avevo visto un paio di volte in giro, lui invece mi cercava, chiedeva di me, prendeva informazioni. Mi stava studiando di nascosto senza che io ne avessi il minimo sospetto.
Una sera fui invitato alla festa di compleanno di Pete, il mio compagno di banco. Quell’anno in molti stavano compiendo i loro diciotto anni, compreso Pete, che si trovava in classe con me per essere stato bocciato l’anno precedente.
La festa venne organizzata di sera, in una grande casa di campagna fuori città con un magnifico giardino curato tutto intorno. Le distese di verde sembravano infinite. Erano un po’ tutte così le case fuori città delle famiglie più agiate.
Quando arrivai la festa era già parecchio animata, si teneva un po’ dentro casa e un po’ nel retro, dove tenevano il barbecue. Molti ragazzi ballavano al centro del grande salone della casa, altri erano nel retro ad aspettare che la loro razione di cibo arrostito fosse pronta. E visto che alla festa conoscevo pochissima gente e con quasi nessuno avevo confidenza, mi fermai accanto a Pete, che cuoceva gli hamburger sulla griglia.
A un certo punto mi suggerì di andare a prendere qualcosa da bere, aggiungendo che potevo anche bere alcolici perché nessuno ci stava controllando. Così entrai nel salone e mi diressi in cucina verso il frigorifero, lo aprii e ne tirai fuori una bottiglia di birra. Stavo per chiudere quando lui, il cugino di Pete, vi si appoggiò con la mano.
«Ne prenderesti una anche per me?» chiese gentilmente.
«Certo.» risposi porgendogliene una.
«Grazie.» la stappò in un secondo con il bordo dell’accendino incastrato nel palmo. Neanche mi accorsi di come fece tanto fu veloce.
«Credo che io avrò bisogno di un tiratappi per questa.» dissi troppo impacciato per chiedergli esplicitamente di fare lo stesso con la mia.
«Da’ a me.» disse stappandola in un secondo come la sua.
«Beh, grazie.» e feci cin con la sua bottiglia. «Ora credo sia meglio che raggiunga gli altri.» dissi con un cenno senza indicare nessuno in particolare. «Grazie ancora.» Mi dileguai, ma non finì lì.
A un certo punto della serata un gruppetto si era messo in cerchio a raccontarsi aneddoti divertenti riguardo la scuola. Io mi aggiunsi al cerchio. Lui era poco distante da noi, seduto su un divano che beveva una seconda o forse una terza birra.
Non mi tolse gli occhi di dosso neanche per un secondo. Sembrava volesse qualcosa, ma non riuscivo a capire cosa. Pensai se la fosse presa per essermene andato poco prima.
Il fatto di essere osservato così insistentemente mi dava fastidio. Decisi quindi di allontanarmi dal gruppo e da quello sguardo indagatore per uscire fuori a prendere un po’ d’aria. Mi seguì. Dopo qualche passo sbottai voltandomi verso di lui.
«Si può sapere cosa vuoi?» chiesi irritato. Mi guardò stupefatto. Probabilmente non si aspettava quella reazione.
«Solo fare due chiacchiere.» lo guardai confuso. «Non conosco nessuno alla festa a parte mio cugino. E lui è il festeggiato, sempre circondato dagli amici. Non posso stargli attaccato per tutta la sera.»
«Se non conosci nessuno perché sei venuto? Non eri mica costretto.» mi resi conto di essere risultato un po’ sgradevole, ma volevo solo che la smettesse di starmi incollato.
«Non sei un tipo molto socievole, eh? Magari ti sembrerà stupido ma... ecco... sono venuto qui per te.» La mia espressione di incredulità doveva essere stata più eloquente di quanto pensassi, perché scoppiò a ridere.
«Me?» Annuì. «Non capisco.»
«Ti va di fare una passeggiata?» chiese. Scossi la testa. «Dai, non farti pregare.»
Lo guardai incuriosito, poi sbuffai. «D’accordo...» mi convinsi infine.
La situazione era piuttosto bizzarra. Non capivo il motivo per cui fosse venuto alla festa per me. Cosa aveva da dirmi? Lo seguii attraverso il giardino. Camminavamo vicini, ma lui non sembrava voler parlare e finimmo pian piano con l’allontanarci dagli altri. All’improvviso prese a parlare.
«È da tempo che ti osservo.»
«L’ho notato.»
«Davvero? Pensavo di essere stato più discreto.» Arrossì.
«È tutta la sera che mi guardi. Sinceramente non capisco cosa vuoi da me. Ti ricordo per caso qualcuno?»
«Qualcosa del genere...» rispose misterioso.
Non soppesai molto le sue parole in quel momento, ma nascondevano molto di più. Non gli chiesi nemmeno chi o il perché gli ricordassi qualcuno. Non mi importava a dire il vero. Volevo solo tornare alla festa. Cominciava a fare freddo e stare lì fuori non era poi così piacevole.
Ci fermammo nei pressi di una quercia e a quel punto lui appoggiò una mano a essa. Mi guardava in modo strano e di tanto in tanto sorseggiava la sua birra.
«Posso sapere che stiamo facendo qui? Perché non torniamo alla festa?»
«Non ti piace qui?» Incrociai le braccia per scaldarmi e scossi la testa.
«Fa freddo.» dissi stringendomi nel mio maglione.
«Beh, per questo non c’è alcun problema...» disse fascinoso. Lo guardai senza capire, stringendomi nel maglioncino verde mare. «Sai, mi attrai.»
«Cosa? Perché?» chiesi ingenuamente, non capendo che stava già succedendo, senza che lo sospettassi nemmeno. Si mise a ridere in risposta alla mia domanda.
«Perché è così, non so darti una motivazione.» Si avvicinò a me e mi spinse lentamente contro la quercia. «Tu mi piaci.» sussurrò e a quel punto mi baciò.
Spalancai gli occhi, non riuscivo a credere a ciò che stava succedendo. Lo respinsi con violenza e mi pulii la bocca. La cosa mi disgustò.
«Che diavolo stai facendo? Ti è forse saltato di volta il cervello?» Lui mi guardò stravolto e preso dalla vergogna si voltò di lato.
Non capivo perché lo avesse fatto. Io non ero attratto da lui, non lo ero mai stato di nessuno. Non mi interessava. A quei tempi non ci pensavo molto, vivevo tranquillamente la mia vita senza coinvolgimenti sentimentali.
«Scusami.» disse lui. «Pensavo che... ecco...» scosse la testa fra sé. «Non importa.»
«Importa eccome! Tu mi hai baciato. Perché? Perché lo hai fatto?» chiesi ancora scioccato e rosso in viso.
«Te l’ho detto. Mi piaci.»
«Ma io.. io sono un ragazzo!»
«E sei così bello.» Quella frase pronunciata con un velo di malinconia e dolcezza mi spiazzò, lasciandomi totalmente senza parole. Nessuno mi aveva mai detto una cosa del genere.
«I-io?»
Annuì e mi tenne il mento tra le dita. «Se solo sapessi quanto ti desidero...»
Mi resi conto di stare guardando dritto nei suoi occhi. Il mio sguardo si spostò altrove imbarazzato, ma lui non si arrese. Anche se quel gesto avrebbe dovuto fargli capire il mio disinteresse, lui continuò a guardarmi. Potevo sentire i suoi occhi fissi su di me. Provò a baciarmi di nuovo, ma questa volta non mi ritrassi, lo lasciai fare.
Non so nemmeno io il motivo per cui lo feci. Forse il fatto di non essere mai piaciuto a nessuno, di non essere mai stato baciato in quel momento mi fece sentire speciale.
Sta di fatto che quel bacio cambiò per sempre la mia vita. Da quel momento nulla fu più uguale. Tutto ciò che mi circondava cambiò radicalmente forma e colore. Osservai il mondo da prospettive che non avevo mai tenuto in considerazione.
Si staccò da me lentamente e riaprì gli occhi. I miei erano rimasti aperti per tutto il tempo e lui se ne rese conto.
«Sei totalmente negato.» disse con un po’ di arroganza. La cosa mi lasciò lì per lì ferito nell’orgoglio e provai una profonda vergogna. Era la prima volta che baciavo qualcuno, un ragazzo poi!
Cercai di dire qualcosa sentendomi terribilmente in imbarazzo e tutto ciò che ne uscì fu un farfugliamento confuso.
«Non preoccuparti.» mi rassicurò lui. «Ti insegnerò io.» ammiccò.
Insegnarmi? In quel momento il concetto mi sembrò irrilevante e del tutto inadeguato. Avevo appena baciato un ragazzo e la cosa mi aveva lasciato senza parole e del tutto impreparato a quello che sarebbe successo dopo.
Cosa significava che mi avrebbe insegnato? Ci saremmo rivisti dopo quello che era successo?
La mia testa si affollò di domande, pensieri e tanto altro che sembrava scoppiare. Non riuscivo a connettere con la realtà, ero ancora immerso in quella situazione, in quel bacio. Mi era piaciuto? No. Eppure non capivo perché stavo ancora lì davanti a lui invece di andarmene arrabbiato. E soprattutto mi chiedevo perché lo avessi lasciato baciarmi una seconda volta.
Mi guardò divertito notando la mia espressione da ebete. La cosa mi fece innervosire, ma non dissi nulla. Si scostò da me e andò via.
«Ci rivediamo ok?» disse voltandosi per farmi un occhiolino.
«Aspetta! Non ci siamo nemmeno presentati!» gli urlai da lontano. «Io sono Trent.»
Si voltò e sorrise. «Lo so. Io sono Spence.» bevve un sorso e tornò alla festa. Restai ancora lì appoggiato alla quercia e ci rimasi per un bel po’. Quando tornai alla festa lui non c’era più. Era scomparso.


© Fab Draka 2012


lunedì 24 settembre 2012

Prologo del nuovo libro "Principi azzurri a luci rosse"

Dopo un periodo che mi è parso quasi infinito ho finalmente pubblicato il mio terzo libro, intitolato "Principi azzurri a luci rosse". Ecco il prologo del romanzo in questione, buona lettura!



PROLOGO



Le sale della Whore-Haus sono piuttosto sofisticate per quello che per molti è considerato solo come un bordello. Abbiamo soffici divani in velluto verde cachi, tavolini in mogano e altri in plexiglass colorato. A ogni finestra è posta una tenda in seta color avorio e nella grande sala ricevimenti è presente perfino un bancone da bar per intrattenere i clienti con qualche chiacchiera tra un cocktail e un altro. Vi lavora Marcus, un barman che per la maggior parte del suo tempo lavora in perizoma rosso luccicante, papillon nero e polsini bianchi immacolati, nient’altro. È un piacere alla vista e i clienti apprezzano il suo savoir faire.
Quel pomeriggio me ne stavo seduto su uno dei divanetti della sala spettacoli, dove eravamo soliti intrattenere i clienti con balli o hard show. Ero totalmente spensierato perché non avevo altri impegni in agenda. Me ne stavo appoggiato con la testa sul gomito sopra il bracciolo del divano, intento a fissare il mio intervistatore in attesa che sistemasse l’attrezzatura necessaria.
Mise la videocamera su un treppiedi e la puntò verso di me accendendola. Gli feci promettere di oscurare il mio volto quando il nostro tête-à-tête sarebbe stato montato in studio. Accettò e lasciò la videocamera puntata su di me riprendendomi a mezzo busto, di modo che anche senza vedere il volto il fisico facesse la sua parte. Indossavo una camicia chiara aperta sul davanti, che metteva in mostra il petto glabro e una collanina d’argento con una piccola croce anch’essa in argento, regalo del mio boss. Sistemò il microfono sull’orlo della mia camicia, poi si mise seduto di fronte a me facendo attenzione a non coprire la videocamera.
«Da dove vuoi che cominci?» chiesi.
«Da dove preferisci. Voglio sapere tutto.»
«Beh, non ti dirò proprio tutto a essere sincero.» dissi con un sorrisino.
«Dai, non mi dirai che devo farti le domande a bruciapelo!» Feci spallucce. «L’hai voluta tu!» disse alzandosi. Ritolse la videocamera dal cavalletto e tenendola in mano zoomò su di me, muovendosi al contempo all’indietro. Pensai volesse emulare la tecnica di ripresa di Hitchcock, il cosiddetto effetto Vertigo, e gli chiesi se per caso stesse girando un thriller anziché farmi un’intervista. «A cosa non rinunceresti mai per amore?» mi interrogò mentre filmava. Cercavo di allontanarlo col piede ogni volta che si avvicinava troppo al mio viso, ma non desisteva.
«Cominciamo già con le domande impegnative!» esclamai. «Beh, alla mia libertà.» risposi sicuro.
«E cosa vorresti per il tuo futuro?»
Ci pensai su. «Sai che non lo so? Non me ne preoccupo adesso, vivo giorno per giorno.» Feci spallucce. «Programmare non è da me.»
Staccò un attimo lo sguardo dalla telecamera per fissarmi direttamente in faccia, poi tornò dietro l’obiettivo. «Hai ragione, forse ti sto facendo domande troppo impegnative. Vediamo... qual è il cibo preferito di un escort?»
«Abbiamo gli stessi gusti di voi comuni mortali.» risposi divertito. Sapevo che cercava solo di rendermi più semplice l’espormi, ma il modo in cui stava conducendo l’intervista era piuttosto ridicolo, anche se a dire la verità il risultato finale non mi importava molto.
«In realtà non ho un cibo preferito.» risposi per accontentarlo. «Come ti ho detto non programmo nulla, nemmeno cosa metto in bocca.» dissi allusivo.
«Evviva i doppi sensi!»
«Cosa vuoi che ti dica? Mi piace provare cose nuove.» Era allettante provocarlo.
«D’accordo, lasciamo perdere le domande inutili. Dimmi allora che rapporto hai con i tuoi genitori. Sanno quello che fai?»
Feci una smorfia. «Forse è meglio tornare alle domande inutili.»
«Tasto dolente?» Mi strinsi nelle spalle e dopo un po’ assentii col capo. «Ma come faccio a intervistarti se non mi dici nulla?»
Ecco fatto, ero riuscito nel mio intento: farlo impazzire. Estorcermi delle confessioni non sarebbe stato facile per lui.
«Sei stato tu a insistere per intervistarmi, io non avevo intenzione di rilasciare dichiarazioni.» La cosa mi divertiva e lui l’aveva capito, ma doveva lavorare e io ormai ero meno teso. Per cui smisi di cazzeggiare e cominciai a fare la persona seria.
«Almeno saprai dirmi qual è il tuo film preferito, se hai mai viaggiato o magari i lavori che hai fatto prima di questo? Insomma, come sei arrivato a diventare quello che sei adesso?»
Guardai dritto verso di lui e mi decisi a concedergli la mia storia. Il mio sguardo per un attimo si fece malinconico, cercai di smorzare l’emozione e di non lasciar trasparire i miei pensieri. Mi era successo troppe volte di cercare una risposta a quella domanda e ancora non riuscivo a trovarla.
Non sapevo se fosse stata una scelta o una vocazione. Eppure mi trovavo lì, in quel luogo, e dalla vita non potevo dire di aver ottenuto sempre il peggio. In un certo senso ero stato fortunato ad avere quella chance, ad altri di solito non va altrettanto bene.
Mi feci coraggio e gli rivelai ciò che era giusto sapesse. D’altronde lo faceva per una buona causa, l’informazione. E si sa, di buona informazione di questi tempi ce n’è così poca!
«Di lavori ne ho fatti alcuni, ma in realtà è stato questo a segnarmi per tutta la vita. Avrei potuto, dovuto e voluto essere un altro, ma questo è ciò che sono, che sono sempre stato e forse sempre sarò.»


© Fab Draka 2012

sabato 25 agosto 2012

IL MIO GROSSO GRASSO VIAGGIO GRECO, RESOCONTO DI UNA VACANZA ELLENICA, parte 2 "Tour de force":


Il mattino seguente ci svegliamo più stanchi del giorno prima, ma dobbiamo andare. Mettiamo in valigia quel po' che abbiamo tirato fuori e andiamo a "parlare" con la proprietaria del B&B per il check-out. Saluto con un «Kalimera» e lei mi chiede se voglio del caffè. Rifiuto gentilmente e mi faccio restituire il documento che aveva preso come garanzia, poi le do la somma pattuita. Quindi ci affrettiamo ad appostarci alla fermata del bus davanti al B&B per dirigerci a Thira, da cui dovremo prendere il bus che ci porterà a Oia. Quando arriviamo alla stazione centrale c'è talmente tanta confusione che non riusciamo a trovare il bus, finché un tizio si mette a urlare «Ia! Ia!» e capiamo che è quello il bus (Oia in effetti si pronuncia così in greco). Arriviamo a Oia e purtroppo dobbiamo spostarci tra le stradine strette con il nostro enorme trolley. È talmente pesante e ingombrante che quasi mi pento di essermelo portato dietro.
Oia è molto carina, le strade sono caratteristiche, piene di negozietti e ristorantini, compriamo qualche souvenir e ci spingiamo verso la lunga strada (fatta anche di scale... maledetto trolley) che ci porta in fondo alla città, dove si vede il panorama della costa con tutte le belle casette colorate. Scattiamo qualche foto e poi siamo costretti a tornare indietro per prendere il bus per Thira (abbiamo il traghetto di ritorno alle 15 e non possiamo assolutamente perderlo). Inizia il tour de force.
Alla fermata, nell'attesa che arrivi il bus, siamo talmente affamati (non abbiamo ancora fatto colazione) che prendiamo a volo un gyros (sarebbe il kebab greco, con l'immancabile montagna di cipolla). Ma proprio mentre siamo a metà pranzo arriva il bus col suo frenetico bigliettaio che fa fretta ai passeggeri per salire e carica tutti i bagagli sul bus. La fretta è dovuta al fatto che le tratte vengono effettuate ogni mezzora e cercano di rispettare gli orari meglio che possono.
Noi cerchiamo di nascondere il gyros per salire sul bus, ma il tizio se ne accorge e ci dice che non possiamo salire col cibo (ha ragione, ma anche noi abbiamo fretta). Così, nonostante ci siamo quasi strozzati per finire il gyros in tempo per salire, ci lascia giù e sta per portarsi il nostro trolley (sì, sempre lui, il maledetto) che è nel bagagliaio, nonostante io tenti per più di una volta di fargli capire che dobbiamo riprenderlo.
Prendiamo il bus seguente, ma un numerosissimo gruppo di spagnoli occupa quasi tutti i posti del bus senza lasciare salire altra gente. Io fortunatamente riesco a trovare due posti in fondo, ma il mio raga che stava posando il bagaglio è rimasto indietro e non riesce a raggiungermi. Per un momento temo che lo lascino giù, ma per un caso fortuito viene scambiato per uno spagnolo e questi ultimi lo lasciano salire.
Sul bus mentre viaggiamo sento un italiano litigare con una donna spagnola perché i posti erano stati tutti ingiustamente occupati (ognuno parla la propria lingua e io che li capisco entrambi assisto allo spettacolo). Volano una raffica di insulti e stufo dello stupido battibecco (anche se a mio parere l'italiano aveva ragione), guardo fuori dal finestrino il panorama della campagna di Oia. Vedo le casette bianche, gli asinelli, i bar dove gli anziani giocano a carte su tavoli e sedie azzurre e poi campi arati e spaventapasseri (uno dei quali era fatto con una bambola gonfiabile, giuro!). Arriviamo a Thira e abbiamo appena un paio d'ore per visitarla prima di prendere il bus che ci porterà al porto Athinios.
Qui la prima cosa che troviamo durante il nostro tragitto è una grande chiesa in stile bizantino, all'interno è bellissima (forse una delle più belle che abbia mai visto), ma purtroppo non ci è permesso fare foto. La guardiamo ammirati da cotanta accuratezza nei dettagli e poi usciamo per cercare di raggiungere la strada che sembra portare al centro della città. La troviamo troppo caotica però e col trolley visitarla è quasi impossibile (fortunatamente eravamo in due e facevamo i turni per portarlo). Stufi, visto che la città è tutta in salita e ci sono troppi turisti, decidiamo di tornare indietro anche perché è tardi e dobbiamo prendere il bus per Athinios.
Qui altra lotta per salire. E per evitare che accada come a Oia con gli spagnoli, questa volta usiamo una tattica diversa. Il mio raga prende i posti e io metto il trolley nel bagagliaio (così in caso posso comunicare in inglese la mia urgenza nel partire). La gente quasi si ammazza per sistemare il proprio bagaglio, ma io ce la faccio e salgo subito sul bus. Sono fradicio di sudore per il caldo e anche per la lotta dovuta alla paura di perdere l'ultimo bus per il porto, ma sedutomi accanto al mio ragazzo finalmente mi rilasso. Arriviamo ad Athinios e non mi pare quasi vero di non dover fare le corse per una volta. Attendiamo il nostro traghetto in una specie di gate, dove fortunatamente grazie a due italiani troviamo posto per sedere. Poi dei turisti cinesi affollano quasi completamente il gate finché non è il momento di prendere il traghetto.
Quando siamo a bordo possiamo finalmente rilassarci e questa volta non facciamo l'errore di sistemarci sui divanetti dentro la nave. Andiamo direttamente sul pontile e ci mettiamo comodi lì al sole, dove nessuno ci disturba e possiamo godere del panorama bellissimo delle isole mentre riposiamo un po'.
Siamo esausti, ma ne è valsa la pena perché Santorini è davvero bella da visitare. Dopo un po' ci addormentiamo, il viaggio è lungo e arriveremo ad Atene solo a notte tarda.


Alla prox avventura...



© Fab Draka

venerdì 24 agosto 2012

IL MIO GROSSO GRASSO VIAGGIO GRECO, RESOCONTO DI UNA VACANZA ELLENICA parte 1: "Perissa"


Il mio viaggio inizia dal porto Piraeus di Atene, dove io e il mio raga siamo arrivati verso le tre di notte con un bus urbano che partiva dall'aeroporto (Atene per i trasporti è organizzatissima). Il porto di notte è silenzioso e un po' cupo, la gente che vi si incontra poi è un tantino particolare. Un tizio ha pisciato davanti a noi due volte senza curarsi di nascondersi meglio, un altro che cercava cibo nella spazzatura continuava a gironzolarci intorno e nonostante dovessimo aspettare il traghetto che partiva alle sette e mezza, sono rimasto seduto su un muretto tutta la notte senza chiudere occhio. L'atmosfera insomma non era delle più rassicuranti. Tuttavia la vista di altri turisti in giro (si contavano su una mano al nostro arrivo, ma sempre meglio di niente) ci ha rassicurati un po'.
Alle sette finalmente ci fanno salire sul traghetto che ci porterà nel porto Athinios di Santorini. Non appena entriamo ci fiondiamo sui divanetti e ci facciamo una mezzoretta di sonno, finché una tizia della stazza di un armadio ci sveglia dicendo in greco (poi a gesti visto che non la capivamo) che dobbiamo lasciare posto sui divanetti per gli altri passeggeri. Assentiamo e non appena sparisce ci rimettiamo sdraiati sui divanetti. Nel frattempo arrivano gli altri passeggeri che prendono posto nella sala dove ci troviamo, ben arredata e luminosa, con tanto di tv e tavoli per mangiare. Destati continuamente dal troppo chiasso decidiamo di restare svegli finché il dannato traghetto non parta (con un ritardo di quasi mezzora).
Alle otto finalmente si parte, ma siamo talmente stanchi che ci addormentiamo subito e non riusciamo a vedere il paesaggio marino che ci circonda. Tuttavia tra un pisolino e un altro riesco a intravedere qualche roccia, poi ci fermiamo a Paros per la prima sosta. Decidiamo di andare sul pontile per vedere il panorama, mentre la gente che si deve dirigere sull'isola scende dal traghetto intasando la piazzola del porto.
Così accade per altre due volte a Naxos e poi a Ios (il panorama è più o meno lo stesso, grandi rocce che si stagliano verso il cielo e una moltitudine di casette bianche con in mezzo alcune chiese dalle cupole azzurre).
Finalmente si arriva a Santorini. Prima di scendere dal traghetto ci fanno appostare tutti davanti al portale-ponte che ci farà scendere dalla nave. Sembriamo di stare in una gara di corsa. Ci mettiamo appostati in modo da poter scendere velocemente per prendere l'autobus che ci porterà a Thira, il centro vitale di Santorini nonché stazione di tutti i bus che partono per le altre città dell'isola.
La gente si accalca nella piazzola non appena il ponticello tocca terra e noi ci fiondiamo verso il bus, che fortunatamente troviamo subito e ci viene a costare più di quello che avevamo previsto.
Arriviamo a Thira, qui ci piacerebbe fermarci, ma abbiamo i minuti contati per poter arrivare al B&B prima che l'orario di check-in scada. Altra corsa contro il tempo. Troviamo il bus, mettiamo la valigia nel portabagagli e dopo una mezzora arriviamo a Perissa, dove alloggeremo.
Qui la fermata del bus si trova praticamente davanti al B&B (quando si dice avere culo). Vediamo due tizi anch'essi italiani che alloggeranno nello stesso B&B, ma non ci cagano di striscio. Ci accoglie un tizio vivace (un po' troppo forse) e una signora che non parla una parola di inglese e con cui dobbiamo capirci tramite il tizio (che parla inglese a modo suo). Fin qui tutto ok. Ci fanno accomodare in quella che dovrebbe essere la reception per prendere i nostri dati e restiamo un po' confusi. La reception sembra una lavanderia. È una cucina, ma sparso in giro c'è il bucato della mattina (credo) e sembra di essere entrati in casa di qualcuno mentre faceva le faccende di casa. Prendono i nostri dati, firmo e andiamo in camera. Il mio raga apre la finestra per far prendere un po' d'aria alla stanza e si vede comparire un asino davanti (io nel frattempo me la rido). Dietro il B&B in pratica c'è un giardino con l'asinello, tipico trasporto greco (o almeno così dicono, ma io non ho visto nessuno farci un giro).
Dovremmo andare a vedere Oia, perché abbiamo poco tempo per visitare l'isola (solo due giorni), ma optiamo per un pomeriggio rilassante al mare di Perissa, che si rivela un'ottima scelta. La spiaggia libera in cui ci sistemiamo si trova non molto distante dal B&B ed è fatta di pietruzze nere, che però non fanno male se ci cammini sopra a piedi nudi. Il mare è stupendo, l'acqua cristallina. L'unico inconveniente è che dopo un paio di metri a nuoto sotto si crea l'abisso e se non sei abbastanza alto (come nel mio caso) rischi di affogare. Il sole ci riscalda dolcemente alla nostra uscita e la gente comincia a spostarsi verso i vari localini che affollano il lungomare. Decidiamo di andare anche noi, trovando la passeggiata parecchio piacevole. I locali si sono riempiti di gente che mangia, balla (dove fanno musica live) o sorseggia un cocktail seduta comodamente sui divanetti. A ogni ristorante che passiamo un cameriere ci ferma per farci accomodare, ma ho già dato un'occhiata furtiva ai prezzi dei menù esposti e non ci penso proprio a pagare quelle cifre. Tra l'altro una prima mazzata l'avevo già avuta al porto di Piraeus dove, proprio per non aver guardato il menù prima di entrare, ho pagato undici euro per due caffè disgustosi (avete presente il rimasuglio del rimasuglio del caffè? Ecco, peggio.) e due brioche minuscole.
Ci spostiamo più avanti alla ricerca di una chiesa dal tetto azzurro che si intravede in lontananza e che sembriamo non raggiungere mai. Finalmente dopo aver girato tutti i negozi di souvenir e aver oltrepassato tutti i ristoranti e i localini la troviamo, vi entriamo ed è veramente bella. Purtroppo non abbiamo potuto fare foto perché non ci era permesso.
Dopodiché cominciamo a sentire lo stomaco brontolare. È ora di cena e decidiamo di entrare in uno dei locali che sembra costare meno (la Grecia è carissima a dispetto di quello che si dice). Il mio raga prende un'insalata greca (feta, olive, pomodoro, lattuga e chili di cipolla), io un souvlaki al maiale (è una specie di kebab con la piadina più piccola ma più spessa e dentro ci vengono messi gli ingredienti tipici di un kebab con in più uno spiedino di carne, la salsa tzatziki e chili di cipolla). Mangiamo molto bene, anche se un mucchio di gatti affamati ci circonda per tutto il tempo e io devo aspettare un bel po' prima di avere il mio delizioso souvlaki.
È la notte di Ferragosto, per cui decidiamo di passarla al mare assaggiando dei dolci tipici greci (delle specie di marshmallow alla frutta ricoperti di zucchero a velo) e bevendo l'ouzi (il liquore greco all'anice). Non ci vuole molto prima che ci ubriachiamo, perché l'ouzi è fortissimo (quasi 40 gradi) e già un sorso ti fa schizzare gli occhi fuori dalle orbite.
Passiamo la notte in spiaggia e poi verso le due e mezza, quando ormai non si vede più nessuno in giro decidiamo di tornare al B&B. La strada di ritorno non è rassicurante come all'andata. Prima di tutto perché è totalmente buia, infatti solo la luna illumina il nostro cammino, e poi perché i cani randagi sono un po' ovunque. Li sentiamo abbaiare a qualsiasi rumore sentano e non vogliamo rischiare di essere sbranati. Se questo non bastasse i cavalli, che dovrebbero trovarsi nei recinti delle case, sono invece lasciati liberi. Ci muoviamo piano piano, senza far troppo rumore per non innervosire gli animali e tenendoci stretti stretti arriviamo finalmente alla nostra stanza. Esausti ci buttiamo sul letto e ci abbandoniamo al sonno. Il giorno dopo dobbiamo svegliarci presto per andare a Oia e poiché non abbiamo ancora recuperato del tutto la stanchezza del viaggio, si prospetta come una giornata faticosa da affrontare.

Alla prox puntata




© Fab Draka

domenica 5 agosto 2012

Primo capitolo di "Love Kills"





Sono nato piangendo, come tutti gli esseri umani, mentre la gente intorno a me sorrideva felice. Ma ho deciso di terminare la mia vita in modo da essere l’unico a sorridere quando morirò. Prenderò questa perla di saggezza di Jim Morrison per esprimere in breve la mia vita.
Ho preferito abbandonare una via per seguirne un'altra e se le cose andranno peggio questo non posso saperlo, ma di certo qualcosa cambierà per sempre.

Sdraiato su quel letto freddo fissavo il muro con occhi spenti, come se tutto ciò che mi circondava fosse evanescente. La stanza, quasi del tutto buia a causa delle persiane socchiuse, era diventata inquietante non solo a causa dell’oscurità che la avvolgeva, ma anche per il fatto di essere permeata di umiliazioni e violenze che non riuscivo più a sopportare. Abusi che si perpetravano ormai da anni.
Fissavo quel maledetto muro mentre il mio carnefice abusava di me un’altra volta, senza che potessi pensare a nulla. La mia mente si svuotava del tutto ogni volta che succedeva, come se mi trovassi in una sorta di trance o in un altro luogo lontano.
All’inizio oltre alla confusione c’era stato il dolore fisico, poi col tempo mi ero abituato, ma la sofferenza che portavo dentro era immensa e non cessava mai.
Quando ebbe finito con me prese una mia maglietta e ci si pulì. Lo lasciai fare, non l’avrei mai più rimessa. Rimasi lì sdraiato sul letto mentre lui andava in bagno a pisciare, il mio sguardo rimase ancora fisso sul muro come se in qualche modo stessi cercando di guardarvi oltre, sapendo tuttavia che anche fosse stato possibile non vi avrei trovato granché.
Rientrò nella stanza e prese dei vestiti dalla sedia vicino al comò, se li mise e poi tornò in bagno a darsi un’ultima sistemata, non si era nemmeno accorto che ero ancora sdraiato sul letto. Non mi salutò neanche prima di uscire, e perché mai avrebbe dovuto farlo? Gli oggetti non si salutano.  Mi lanciò uno sguardo indifferente e andò via.
Spostai lo sguardo altrove, poi mi alzai lentamente sentendo dolori atroci ovunque, sembrava quasi che mi avesse rotto le ossa. Mi alzai a fatica e mi misi seduto sul letto cominciando a piangere disperatamente. Fuori pioveva. La natura sembrava partecipare al mio dolore. O magari era Dio che piangeva per me. “E perché non mi aiuta invece di compatirmi?” pensai con rancore.
La pioggia mi faceva venire in mente il sangue, scorre lenta su di te, scivola sulla tua pelle e può far male. Un male dannato. Il sangue mi congiungeva al mio carnefice. Stesso sangue. Un male che mi aveva condannato sin dalla più tenera età. Sapevo cosa dovevo fare. Ma quella sarebbe stata davvero l’ultima volta?
Mi misi sotto la doccia. Solo in quel modo sarei riuscito a levarmi il suo odore di dosso. Solo in quel modo avrei provato la sensazione di tornare di nuovo puro per pochi istanti. Ma erano solo attimi. Dicono che la felicità sia fatta proprio di questo, attimi. E bastava poco per farmi crollare di nuovo. Scoppiavo a piangere all’improvviso senza più riuscire a fermarmi. Uscii dal bagno totalmente nudo, ancora bagnato. Ravviai i capelli bagnati dietro la testa, raggiunsi il suo armadio e ne tirai fuori una scatola di scarpe. Gocciolavo tutto, ma questo non importava. Il contenuto di quella scatola era molto più importante.
Chiusi gli occhi un istante e presi un profondo respiro, poi la aprii. Conteneva una 9mm e un caricatore. Lui la teneva per difendersi dai ladri.  Non sapeva che avevo trovato quella scatola pochi mesi prima e che da allora ero sempre stato tentato dall’idea di farlo a pezzi con quell’oggetto così piccolo e così micidiale. Sotto la 9mm vi erano alcune foto impolverate. Ritraevano mia madre. Le guardai con gli occhi ancora gonfi per il pianto e le strinsi al petto. Ci aveva lasciati da quattro anni, ma il suo ricordo non se n’era mai andato. Il suo cuore pieno d’amore si era dedicato totalmente al mio bene, ma non aveva resistito e alla fine aveva smesso di battere. Pensai che fosse andata meglio a lei che a me. Per lei quel tragico pomeriggio l’incubo era finito, per me era appena iniziato.
Riposi le foto sotto la pistola e richiusi la scatola. Non era ancora il momento giusto. Non ero pronto per fare una cosa del genere. Per secoli l’uomo aveva lottato contro se stesso, fatto stragi, carnefi-cine e tutto senza mai rendersi conto di ciò cui andava incontro. Non si trattava solo di rubare vite umane, ma anche di distruggere famiglie, creare orfani, arrecare dolore a persone non direttamente coinvolte. Dalla mia parte non avevo alcun impedimento. Avrei solo fatto un favore al mondo. E oltre lui non avrei lasciato altre vittime innocenti lungo il mio cammino. Ma non potevo farlo, non mi sentivo ancora privo di umanità. Quella fase invece lui l’aveva ormai superata, era passato dalla parte dei mostri e io ero caduto nella realtà. Lo schianto era stato forte, improvviso, ma non mi ero arreso. Ero cresciuto in fretta nell’anima mentre nel corpo rimanevo ancora solo un ragazzino.
La pioggia cadeva pesante sull’asfalto, ogni goccia sembrava provocare un tonfo. Me ne stavo in camera a guardarla cadere lentamente attraverso la finestra. Pensai a quel posto. Avevo vissuto in quel quartiere da tutta una vita. C’ero nato in quella casa, mia madre non aveva voluto partorire in ospedale. E dalla sera in cui nacqui quella casa diventò la mia prigione. In quel luogo nacqui, crebbi e i miei sogni andarono in frantumi.
Ne avevo tanti di sogni quando ero piccolo, ma mio padre puntualmente mi faceva tornare alla realtà dicendo che non ero abbastanza capace per fare lo scienziato o l’astronomo o l’astronauta. Secondo il suo parere avrei potuto al massimo fare lo spazzino. Il mio sogno più grande erano le stelle. Le guardavo spesso quando ero piccolo, erano così numerose e splendenti che non potevo fare a meno di restare incantato dinnanzi ad esse. E chissà quante cose si nascondevano tra gli astri. Mi sarebbe piaciuto tanto poter toccare una stella, un desiderio stupido certo, ma era comunque soltanto un sogno.
Da quando la mamma era morta papà mi aveva persino tolto dalla scuola. “Tanto non ti servirà a niente” era stato il suo commento. Riuscì così a troncare non solo ogni mia aspirazione, ma anche qualsiasi contatto umano al di fuori delle mura domestiche. Finite le medie per non restare con le mani in mano dovetti quindi cercare un lavoro. Avrei voluto ribellarmi alla sua decisione, ma sapevo che se lo avessi fatto mi sarebbe andata peggio. Mi avrebbe fatto del male, avrebbe potuto uccidermi e forse sarebbe stato meglio, ma in quel periodo non mi ero ancora reso conto di quanto fosse grave la mia condanna. E quando diventai consapevole era ormai troppo tardi per fuggire, per iscriversi di nuovo a scuola o per qualsiasi altro progetto avessi in mente. La mia prigione era diventata ormai una cosa mentale da cui non potevo più uscire. Lui aveva distrutto quel briciolo di vita che ancora era rimasto in me. Ma presto qualcosa cambiò.



© Fab Draka 2011

lunedì 2 aprile 2012

Un pezzo di carta può davvero cambiarti la vita?

Dopo tanti sacrifici, notti insonni, pasti consumati a metà e profonde crisi di nervi alternate a fasi di stress, sono finalmente riuscito a raggiungere il traguardo: mi sono laureato. Sembrava un'impresa e adesso invece è come se nulla fosse cambiato. Può fare davvero la differenza un pezzo di carta tanto sudato? Eppure non ho ancora un lavoro e dallo status di studente sono passato ora a quello di disoccupato senza che me ne sia veramente reso conto. Esatto, perché nonostante il faticoso percorso non riesco ancora a definirmi un laureato. E' come se il mio percorso fosse incompleto. Un tragitto fatto a metà, tra vetri rotti che adesso si sono tramutati in spuntoni di rocce appuntite, e un sole all'orizzonte che splende, ma ancora troppo lontano. Mi chiedo, è davvero finita? Non è forse adesso che comincia la parte peggiore? Quel baratro spaventoso che mi fa capire di non aver concluso nulla se non sfrutto ciò che ho acquisito? E cosa ho veramente imparato da tutto ciò, se non che per poter ottenere il minimo devi dare il massimo? Che mesi di m***a ho affrontato, chiuso in casa quasi fossi una suora in clausura... Ma ne è valsa la pena. Adesso ho un titolo, un pezzo di carta. Può sempre servire no? Non si sa mai che finisca la carta igienica in casa, si ha la soluzione a portata di mano... E beh, in questo paese non se ne può far altro uso d'altronde. Bisogna andar fuori per uno come me per concludere qualcosa, per ottenere il giusto, quello che spetta, un minimo di diritti.
Uno potrebbe anche pensare "Ora che ho raggiunto questo traguardo, posso finalmente fare il lavoro che ho sempre desiderato"... non oso illudermi tanto, ma si sa, la speranza è sempre l'ultima a morire.