giovedì 25 dicembre 2014

TACCHETTO 12 - SPECIALE NATALIZIO


TACCHETTO 12 - SPECIALE NATALIZIO

Il periodo più bello dell'anno era per Antonio il Natale. Le strade si illuminavano a festa con brillanti luci colorate sospese da un edificio a un altro, i commercianti decoravano le vetrine dei negozi col finto spray per simulare la neve e ponevano ghirlande e festoni come cornice alle ampie vetrate. L'atmosfera diventava calorosa nonostante la temperatura si abbassasse e pareva quasi fossero tutti partecipi a un piccolo miracolo della natura quando quelle rare volte cadeva la neve. Sarebbe stato utile se fosse successo proprio mentre giravano per negozi - molti aborrivano la neve abituati com'erano al caldo della Sicilia - e quel pomeriggio la gente si era accalcata per le strade e i negozi per le ultime compere prima delle feste. C'era molta confusione e anche se spesso tutta quell'atmosfera si traduceva in una mera trovata commerciale era comunque interessante vedere come tutta quella calca affollava le strade principali, unite dal comune desiderio di comprare regali da scartare alla vigilia.
Antonio poi amava comprare regali per i propri cari, addobbare l'albero nel salotto di casa con tutto quello che riusciva a raccattare, creare addobbi particolari insieme alla sorella cucendo i pezzetti di stoffe avanzate e farsi aiutare dalla sorellina ad allestire il presepe in un piccolo vano della cucina.
Anche Alessandro amava molto quella festa, ma per motivi diversi, a lui piaceva ricevere doni in quantità. Per le feste accorrevano a casa nonni e zii e ogni volta era una gioia. Si ritrovava le tasche piene di banconote e la stanza ricca di ninnoli e aggeggini da collezione.
Non amava particolarmente comprare regali, più che altro perché per lui era difficile indovinare i gusti delle persone, ma per quella volta si era lasciato trascinare da Antonio in giro per negozi.
L'aria si era fatta di un freddo pungente e quando parlavano formavano piccole nuvole di vapore bianco. Erano rimasti a sostare davanti all'espositore di un panificio, il profumo del pane caldo e il dolce tepore che si provava lì dentro dopo il freddo della strada risvegliavano ricordi lontani, ai tempi in cui le loro nonne preparavano le pizze in casa.
 Dietro la vetrata dell'espositore avevano adocchiato i dolci appena sfornati e quelli fritti. Avevano già sgranocchiato dei pistacchi tostati durante il cammino, ma adesso volevano farsi la "vucca duci" ed entrando lì dentro a entrambi era venuta l'acquolina in bocca. Alla fine si erano fatti dare delle zeppole di riso. Quando Antonio - pur avendone mangiate più della metà - si accorse che non ne erano rimaste più dentro la confezione che si erano fatti consegnare, si imbronciò. Allora Alessandro che ne aveva ancora una in mano la spezzò in due e gliene diede metà, sporcandosi il dito di miele che subito leccò via.
«Ricordi che ti avevo detto che mi piaceva il calcio?» chiese Antonio mentre passeggiavano in via Etnea. Alessandro si spolverò le mani sporche di zucchero a velo e annuì. «Pensi che sarebbe un'idea stupida iscriversi a una squadra di calcio?»
Alessandro lo osservò e i suoi occhi parvero sorridergli.
«Perché mai dovrebbe esserlo? Se vuoi farlo, fallo» rispose con la bocca ancora piena.
Antonio annuì tra sé.
«Ti iscriveresti insieme a me?» disse con tono innocente.
Alessandro tossì strozzandosi con la zeppola e Antonio gli diede qualche colpetto alle spalle.
«Io?» chiese incredulo. «Sono totalmente negato.»
«Mi hai detto che un tempo facevi calcetto.»
«Beh, sì, ma... È stato un secolo fa e non ero per niente bravo. Infatti ho smesso.»
Antonio si rabbuiò. Alessandro sentì una morsa allo stomaco e sospirò.
«Di che si tratta?»
L'amico saltellò contento e applaudì come una foca.
«Allora, me lo ha detto un mio amico dell'arcigay. Praticamente c'è un ragazzo che sta organizzando questa squadra di calcio gay e sta cercando giocatori. Così avevo pensato che poteva essere una cosa carina iscriverci assieme.»
«Carina?» commentò Alessandro scettico. «Faremo una figura ridicola.»
«Pensi che scelgano dei campioni? L'iscrizione è aperta a tutti, anche a due mezzeseghe come noi. Eddai! Non ti fare pregare!» Gli mostrò quello sguardo languido che sapeva farlo sciogliere. Alessandro odiava quando faceva così, perché otteneva sempre tutto quello che voleva.
«Ci penserò» sentenziò alla fine.
«Yuppi!» esultò Antonio. «È più di quanto potessi sperare dal signor Nondarmiiltormento! Allora adesso ci andiamo a informare.»
«Non ho ancora accettato!» replicò Alessandro spazientito. Ma Antonio camminava già per i fatti suoi, parlando da solo e immaginando chissà cosa.
«...E tutti quei corpi maschili sotto le docce! Già! Te lo immagini?»
«Eh? Scusa come siamo finiti a questi discorsi? Non si parlava di giocare a calcio?»
«Certo, certo. Malpensante!» Riprese a camminare. «Ci sarà da divertirsi!» Gli occhi gli luccicavano.
Alessandro scosse la testa tra sé, quel tipo era incorreggibile. Sapeva già che per quanto avesse protestato alla fine si sarebbe lasciato convincere, avrebbe fatto di tutto per farlo contento.
Si recarono alla sede dell'arcigay. Avevano preso un caffè in un bar di Piazza Duomo e poi avevano tirato dritto per Via Vittorio Emanuele.
Alessandro aveva le farfalle allo stomaco, gli pareva di tornare a vivere un incubo e aveva anche il timore che qualcuno che conosceva potesse vederlo entrare lì dentro. Alla sede li aveva accolti un ragazzo bruno, non molto alto, con delle occhiaie profonde dovute probabilmente a parecchie notti insonni.
«Piacere, io sono Sirio» aveva detto.
I ragazzi si presentarono, Sirio parlò loro del progetto e infine prese le adesioni. Li avrebbe ricontattati non appena avesse avuto notizie dall'organizzatore. Si fecero lasciare il suo numero e poi si incamminarono verso casa.
Presero delle stradine per fare prima, cominciava ad abbassarsi la temperatura ed entrambi non vedevano l'ora di mettersi davanti alla tv con i termosifoni accesi a guardare "Nightmare Before Christmas".
«Non sono ancora tanto sicuro di questa cosa...» si lamentò Alessandro. Antonio lo squadrò. Si trovarono nello spiazzale vuoto di Piazza Carlo Alberto, dove ogni mattina si svolgeva il mercato.
Adesso puzzava di un miscuglio di pesce e verdure andate a male. Si trovarono proprio al centro, dove di solito la sera le donne cinesi che vivevano nella zona si intrattenevano in danze dalle movenze studiate, a ritmo di canzoni dalle melodie esotiche. Talvolta lì si mettevano a giocare anche i ragazzini, era un posto perfetto per quello che Antonio aveva in mente.
Vide per terra un cavolfiore mezzo marcio, abbandonato a sé stesso, in attesa che la nettezza urbana se lo portasse via insieme al resto dei rifiuti.
«Proviamo a giocare, vediamo cosa sai fare» gli intimò.
«Ma non abbiamo una palla» fece notare Alessandro.
«Useremo questo» rispose Antonio spingendo con un piccolo calcio il cavolfiore, che si posizionò ai piedi dell'amico. Questi sorrise, pensava lo stesse prendendo in giro, ma Antonio era maledettamente serio.
Accettò la sfida.
«Io faccio il portiere e tu provi a tirare in porta» gli disse Antonio, «Fa finta che questi due secchi di immondizia siano i limiti della porta» disse trascinando due contenitori marroni adibiti per la raccolta dei rifiuti.
«D'accordo, cominciamo» rispose Alessandro.
Cominciò a passarsi il cavolfiore da un piede all'altro, correndo in avanti in modo un po' stentato. Fortunatamente non li guardava nessuno, aveva pensato. Si sarebbe sentito ridicolo.
A pochi metri dalla porta aveva indugiato, poi aveva tirato un calcio e anziché lanciargli il cavolfiore gli era sfuggita la scarpa.
Rise imbarazzato, ma Antonio non si diede per vinto. Gli lanciò la scarpa, lui la indossò e strinse i lacci.
«Prova di nuovo» lo esortò serio l'amico.
Alessandro fece un altro tentativo, questa volta riuscì a colpire il cavolfiore e Antonio lo prese al volo.
«Wow!» esclamò sorpreso Alessandro.
Antonio glielo passò con un calcio. Ormai l'ortaggio andava sgretolandosi pian piano.
«Riprova.»
L'amico fece un cenno affermativo col capo ed eseguì. Questa volta ci mise più concentrazione e con un calcio ben assestato riuscì a oltrepassare le mani di Antonio.
«Gol!» esultò alzando le braccia al cielo.
Il cavolfiore era andato del tutto in frantumi. Antonio gli sorrise complice.
«Visto? Non è poi così male.»
Alessandro sorrise debolmente, in fin dei conti non aveva tutti i torti. Forse era solo passato per un'esperienza sbagliata, ma questo non voleva dire precludersi il divertimento. E dopo tutto era adulto ormai, non doveva più accontentare i "capricci" dei suoi genitori. Poteva sempre mollare se non gli fosse piaciuto. Antonio non se ne sarebbe risentito.
Andarono a casa di Alessandro e questi preparò della cioccolata calda. Era sempre stato dell'idea che fosse il modo migliore per festeggiare un momento felice e quello indubbiamente lo era. L'iscrizione alla squadra sembrava l'inizio di un nuovo cammino per entrambi.


#FabDraka #Tacchetto12 #GayCalcio

domenica 14 dicembre 2014

TACCHETTO 12, CAPITOLO 3: ANTONIO


Ecco con un po' di ritardo il nuovo capitolo del romanzo d'appendice "Tacchetto 12". Oggi si parla un po' di Antonio, uno dei personaggi presentati nel capitolo precedente. Gustatevi questo nuovo "episodio" e condividete ;)

CAPITOLO 3

ANTONIO



«E che passioni hai oltre i manga e gli anime?» gli aveva chiesto Alessandro.
«Forse non ci crederai» rispose Antonio, «Perché magari tu mi vedi così e pensi che sia un po' effemminato... Però beh, mi piace il calcio.»
«Sei un gay anomalo.»
Antonio rise. «Lo so, me lo dicono tutti.»
«Non c'è nulla di male nel fatto che ti piaccia il calcio» osservò Alessandro.
«Lo penso anch'io, ma sai la nostra società è così ghettizzata! Non ti puoi muovere di una virgola dal cliché che ti hanno appioppato che vieni subito additato.» Scosse la testa fra sé. «È così deprimente.»
«Ti capisco. A me hanno affibbiato la figura di secchione alle elementari e non sono riuscito più a levarmela di dosso» si imbronciò. Antonio lo fissò e pensò che fosse buffo.
«Neanche nell'essere un secchione c'è nulla di male» lo rincuorò, «La cultura paga. O almeno lo farebbe in un Paese civilizzato, che non è il nostro caso, ma ti pone comunque un gradino più in alto rispetto agli altri. È un vantaggio. Chi ti giudica spesso lo fa perché ti invidia» gli disse facendogli un occhiolino.
«Forse hai ragione» si convinse Alessandro. «E sai che ti dico? Che alla prima partita che fanno al Massimino verrò con te!»
Antonio stese la mano e ci sputò sopra. «È una promessa.»
Alessandro guardò quella mano inumidita con un po' di sdegno, ma sputò a sua volta sulla propria e gliela strinse.
Da allora quando il Catania giocava in casa non perdevano occasione per comprare i biglietti e sedersi in curva a tifare quella che già per Antonio era la squadra del cuore e che per Alessandro lo sarebbe presto diventata.
Antonio proveniva da una famiglia di Librino, un quartiere nato alla periferia della città e progettato dall'architetto giapponese Kenzo Tange. Era stato questo particolare a destare la curiosità del ragazzo verso la cultura giapponese, che volle negli anni approfondire, a cominciare dai manga, che davano il perfetto background culturale per un otaku ancora alle prime armi. Si era poi portato avanti con la letteratura, leggendo romanzi di Banana Yoshimoto, Yukio Mishima, Haruki Murakami e ultimo, ma non per questo minore, Koji Suzuki.
Il suo sogno più grande era stato da sempre quello di andare in Giappone ed entrare nei Samurai Blue - come veniva comunemente chiamata la Nazionale di calcio giapponese.
L'idea era nata quando aveva visto per la prima volta in tv "Holly e Benji". Li aveva visti giocare e aveva pensato "Io voglio giocare in una squadra così", pur rendendosi conto che quello era solo un cartone animato e che la reale squadra nazionale giapponese giocava in modo pessimo.
Così aveva iniziato ad allenarsi nel cortile di casa con la sorella minore, che a quei tempi aveva solo due anni. Le diceva di dare un calcio alla palla e lui l'avrebbe presa al volo. Ogni tanto sua sorella tirava così piano che lui aveva anche il tempo di fare il rallenty e si sentiva un po' come dentro il cartone animato. Sua sorella apprezzava tantissimo la performance e ogni volta si sganasciava dalle risate.
La sua era una famiglia umile, sua madre era casalinga e suo padre un commerciante che vendeva verdura al mercato di piazza Carlo Alberto. Ogni tanto era andato ad aiutarlo, ma aveva smesso quando giornalmente dei ragazzini per prenderlo in giro avevano continuato a chiedergli "A quanto la vendi la banana?"
Così aveva iniziato a prendere in considerazione il mestiere della sorella maggiore Lucia. Faceva la sarta e aveva iniziato quell'attività da piccola, confezionando abitini per le bambole e le Barbie delle sue compagne di scuola e della sorellina (con cui segretamente giocava anche Antonio). Da grande aveva poi seguito dei corsi, che il padre aveva pagato a prezzo d'oro, ma che non le avrebbe mai negato. Era disposto a fare di tutto pur di aiutare i propri figli a costruirsi un futuro. Così non aveva preso con dispiacere la decisione del figlio di seguire i passi della sorella. E quando lei aveva aperto la sartoria lui l'aveva aiutata, imparando le tecniche, procacciando clienti, facendole pubblicità tramite internet.
Sua sorella era bravissima nel cucito, ma mancava di una cosa che lui invece possedeva in quantità esorbitante: la fantasia.
Presto aveva cominciato a disegnare i bozzetti degli abiti e le clienti si erano dimostrate spesso soddisfatte dei loro lavori. Poi un giorno era entrato lui, un ragazzo dai capelli lunghi e dai tratti efebici. In un primo momento la sorella l'aveva scambiato per una ragazza, facendo una gaffe terrificante che non si sarebbe mai perdonata. Ma il ragazzo non si era offeso e aveva anzi commissionato loro proprio un abito da donna. Si era fatto prendere le misure sotto l'occhio attento ma inquisitore di Lucia ed era uscito dal negozio salendo su una panda tutta sgangherata.
Antonio l'aveva seguito per lasciargli il loro biglietto da visita (e anche un po' per curiosità). Entrambi non avevano fatto altro che guardarsi tutto il tempo mentre la sorella misurava braccia, gambe, busto e quant'altro.
Si erano intesi a vicenda, il segreto di pulcinella era saltato all'occhio subito e si erano scambiati i numeri. Quando Antonio era stato chiamato personalmente per lavorare ad altri abiti aveva finalmente compreso a cosa servissero. Quel ragazzo che era entrato in negozio non era altri che una delle drag queen del locale gay più conosciuto della città.
Aveva cominciato a lavorare per loro, accostando l'attività di costumista a quella che svolgeva con la sorella.
Per un po' le cose erano andate per il verso giusto, poi qualcuno aveva fatto la spia. Avevano scoperto che Antonio lavorava per i "froci" e che anche lui era un "finocchio patentato".
Un giorno non mancarono di riferirlo anche al padre, proprio lì al mercato, quando avevano visto Antonio portargli una delle casse di frutta che si era dimenticato in garage.
«Signor Privitera» aveva cominciato uno dei commercianti, «Ci l'aviti nu beddu finucchieddu?» Il padre aveva guardato l'uomo in modo torvo. Sapeva quali erano le voci che giravano sul conto di suo figlio, ma non aveva mai dato peso ai pettegolezzi.
«Talè! Ci n'é unu cà!» aveva esclamato l'uomo prendendo Antonio per le spalle e facendo capolino sulla sua spalla. «E pari beddu friscu!»
Gli altri commercianti si erano messi a ridere e il padre aveva cominciato a innervosirsi.
«Lassa stari ma figghiu» gli aveva ordinato.
«Bii! Privitera ti 'ncazzasti? A stava schirzannu!»
Antonio si scrollò le spalle e si voltò verso l'uomo.
«Si mi tocchi arrera ti spaccu u culu» gli disse arrabbiato.
L'uomo si mise a ridere di gusto.
«A beddu, forsi ca forsi è chiù probabili ca tu spaccu iu.»
A quel punto il padre si era precipitato in mezzo alla piazza e la gente che aveva assistito alla scena già pregustava la rissa, ma Antonio lo aveva tenuto fermo dicendogli di lasciar perdere.
«Fatti i cazzi to'» rispose Antonio al commerciante, «Ca iu mi fazzu i mei.»
A quel punto fraintendendo la frase - che volutamente o meno Antonio aveva espresso in modo ambiguo - i commercianti presero a deriderlo e sbeffeggiarlo.
«Chistu è ma figghiu e si è puppu o no a mia nun mi ni futti nenti. Taliativi viautri, minchiuni!» lo difese il padre a spada tratta.
Si era messo contro un sacco di gente, forse minando anche la propria attività e Antonio ne era rimasto sorpreso. Non avrebbe mai creduto suo padre capace di mettersi contro il senso comune e di patteggiare per lui in una cosa tanto difficile da digerire. Eppure così era stato e dopo che lo aveva difeso il padre si era voltato verso di lui e lo aveva abbracciato.
«Ti voglio bene» gli aveva detto, «Così come sei. Sono orgoglioso di te.»
Antonio venne travolto dai sentimenti e piangendo a dirotto lo aveva stretto forte a sé. I commercianti avevano assistito a quel piccolo gesto d'amore e una signora che vendeva frutta lì vicino si era commossa e aveva cominciato a battere le mani. Altri la seguirono e il commerciante che aveva iniziato la baruffa se ne tornò alla propria bancarella con la coda tra le gambe.

Da quel momento il signor Privitera aveva sempre appoggiato il figlio, accompagnandolo perfino ai gay pride che si erano tenuti in città. Sin dai primi anni di fanciullezza gli aveva insegnato che bisognava lottare per la libertà ed entrambi ci credevano ancora fermamente.


#FabDraka #Tacchetto12 #GayCalcio

mercoledì 3 dicembre 2014

TACCHETTO 12 - CAPITOLO 2: ALESSANDRO

Ed ecco che arriva il secondo capitolo del romanzo d'appendice che ho iniziato a pubblicare in rete la scorsa settimana. Questa volta presento un nuovo personaggio della storia, anzi due per l'esattezza...
Godetevi il secondo capitolo di "Tacchetto 12" :) commentate e condividete se vi piace ;)

CAPITOLO 2
ALESSANDRO



Come a tutti nella vita, arriva il momento in cui bisogna prendere le cose di petto e affrontare le proprie avversità con coraggio e determinazione. Così era stato anche per Alessandro. Fino ad allora aveva vissuto subendo le angherie dei suoi compagni di classe e ora non ne poteva più. Il liceo era finalmente terminato con tutti i brutti ricordi che lo avevano segnato. Sin dalle medie era stato preso di mira perché portava gli occhiali, poi quando alle superiori era passato alle lenti a contatto avevano trovato nuovi modi per prenderlo in giro. Così si era risparmiato il fastidio di infilarsi le dita negli occhi ed era tornato alle care e vecchie lenti di vetro.
Era un ragazzo smilzo, con i capelli lisci come spaghetti e dal taglio anomalo. Sembrava gli avessero capovolto una scodella nera in testa e i suoi compagni di classe lo avevano rinominato "Calimero" proprio perché al posto dei capelli sembrava avere un mezzo guscio d'uovo.
A lui però era sempre piaciuto quel taglio, gli ricordava i manga che leggeva. Molti dei personaggi dei suoi fumetti avevano i capelli acconciati in quel modo, per questo se li era fatti fare così.
La prima volta che aveva portato il fumetto al suo barbiere, questi l'aveva guardato con un misto di perplessità e rassegnazione, ma poi lo aveva accontentato. E da allora per tutti era diventato Calimero.
Non che gli importasse veramente molto di quel nomignolo, almeno finché i compagni si limitavano alle offese. Erano i fatti che poi lo rendevano nervoso. Come quella volta che gli avevano riempito lo zaino di gusci di uova marce e la puzza non se n'era andata per giorni.
La cosa che più gli dava fastidio era il fatto di dover quasi chiedere consensi per delle scelte che riguardavano solo e soltanto lui e per cui temeva altrimenti di subire pregiudizi e umiliazioni.
Ora era pronto per affrontare un nuovo capitolo della sua vita. E questa volta non si sarebbe fatto mettere i piedi in faccia da nessuno. L'università lo attendeva e lì sperava di trovare persone più del suo livello, non che fosse mai stato un tipo snob, ma aveva cominciato a diventare diffidente da quando le persecuzioni avevano avuto inizio.
I suoi genitori gli avevano consigliato di svagarsi con qualche attività ricreativa quell'estate. Da piccolo lo avevano spronato spesso in tal senso, cercando di indirizzarlo verso attività che potessero coinvolgerlo anche socialmente. In seconda media aveva preso parte a una squadra di calcetto. Alessandro non era sembrato particolarmente entusiasta della scelta. Aveva sempre considerato il calcio uno sport sopravvalutato. Ma aveva comunque voluto fare un tentativo, più che altro per accontentare i genitori, sempre preoccupati che non riuscisse a instaurare amicizie o che tendesse a isolarsi per sprofondare la testa nei libri.
Nei primi tempi non si era trovato tanto male, giudicandolo anzi curiosamente divertente. Giocava nel ruolo di difensore e seppure non fosse molto bravo non sembrava importare a nessuno dei suoi compagni di squadra. L'allenatore era l'unico che sembrava lamentarsi della sua incapacità di concentrarsi nel gioco. Più volte lo aveva provocato, dicendogli di tenere d'occhio la palla, di non distrarsi, coinvolgendo pian piano anche gli altri giocatori, fomentando in loro la competizione e la discordia, quando fino a quel momento si erano limitati a giocare per divertirsi come lui. Poi era passato alle offese chiamandolo incapace, imbranato, inetto. Alla fine Alessandro non ce l'aveva fatta più e quando l'allenatore gli aveva detto con sdegno «Anche un handicappato saprebbe giocare meglio di te», era esploso di rabbia e con violenza aveva calciato la palla beccandolo dritto in fronte ed esultando con un «GOL!»
I genitori erano stati chiamati a rispondere del comportamento del figlio, ancora soddisfatto della propria rivincita. L'allenatore chiese loro se per caso ci fossero problemi in famiglia e i due si trovarono nella situazione di sentirsi in colpa per qualcosa che non avevano fatto.
A quel punto Alessandro, stanco delle bugie e dell'arroganza di quel tipo, aveva vomitato tutta la verità aggiungendo di non voler più seguire nessunissimo sport. I genitori lo assecondarono, lasciandogli coltivare i suoi hobby.
Ora tuttavia speravano si dedicasse a qualcosa di diverso, che magari non avesse a che fare con il mondo dei fumetti. Non avevano nulla contro quel tipo di arte, solo che ritenevano le esperienze sociali del figlio molto più importanti di qualunque volumetto illustrato.
«Cercherò qualcosa che vada bene» aveva detto loro e nemmeno un'ora dopo aveva comprato il biglietto per Etnacomics.
Non appena i suoi genitori lo vennero a sapere rotearono gli occhi in segno di disapprovo, ma alla fine lo lasciarono andare.
Per l'occasione realizzò un cosplay assemblando il costume con cose raccattate qua e là tra oggetti di recupero, materiale acquistato in cartolibreria e vecchi abiti di scena che sua madre teneva in mansarda da quando non lavorava più in teatro.
Quando era arrivato alle Ciminiere - il centro fieristico in cui si sarebbe svolto l'evento - la fila per entrare pareva lunga chilometri, ma era riuscito a eluderla grazie al biglietto acquistato online. Era la prima volta che partecipava, benché ne avesse sentito parlare parecchio anche gli anni precedenti. Gli sembrava un mondo nuovo da esplorare e il programma era talmente fitto che pur volendo non sarebbe riuscito a fare tutte le cose in lista.
Aveva perlustrato un po' le varie aree restando sempre più sorpreso ed entusiasta dal constatare quanta gente come lui ci fosse in giro. Quelli che gli altri chiamavano "nerd" o "stramboidi" e che in quel luogo sembravano invece andare più di moda di qualunque "figo" di turno.
Per la prima volta si sentì a casa, in un posto in cui poteva essere se stesso senza risultare agli occhi degli altri un completo mentecatto.
Girovagando per gli stand dei fumetti ne aveva trovato uno in particolare che aveva attirato la sua attenzione. C'erano un sacco di manga a tematica gay e lì un uomo con un orecchino al sopraciglio aveva mostrato un sorriso cordiale quando Alessandro con circospezione e finto disinteresse ci era passato davanti due o tre volte di seguito.
«Sei interessato a qualcuno dei nostri volumi?» gli aveva chiesto alla fine l'uomo.
Alessandro colto in castagna era arrossito e aveva scosso la testa dileguandosi in un attimo, ma poi si era detto "Che diamine! Visto che sono qui tanto vale fare quello che mi pare!"
Così era tornato con passo felpato e mentre si era messo a sfogliare alcuni manga il tizio col piercing gli aveva dato alcuni consigli.
«Quello è interessante, ma se ne cerchi uno davvero bello leggi questo» disse porgendogli un volumetto. Alessandro lo prese e lo sfogliò. Lesse la trama e storse il naso.
«Troppo sentimentale» commentò.
In quel momento un ragazzo vestito da Edward mani di forbice si avvicinò al banchetto e interruppe la loro conversazione.
«Stavo cercando lo shonen'ai "No.6", ce l'hai il terzo volume?» chiese.
«Credo di sì.» L'uomo rovistò dentro una scatola e glielo porse.
«Bello il tuo costume» lo squadrò Alessandro sistemandosi gli occhiali. Il ragazzo lo ringraziò e gli chiese da cosa fosse vestito lui. «L'ho inventato a dire il vero» rispose. «È uno steampunk.»
«Cool!» esclamò entusiasta il ragazzo osservando con più attenzione i particolari del costume ricavati da materiali di scarto modificati a dovere.
Alessandro si sentì sollevato dal ricevere per la prima volta complimenti anziché critiche e ciò gli diede il coraggio di non nascondersi dietro una maschera e mostrarsi per quello che era senza paura.
«Di che parla il manga che stai comprando?»
«Parla di questa grande guerra che ha devastato il mondo e ha diviso la popolazione in due emisferi, uno apparentemente più fortunato dell'altro» disse il ragazzo sfogliando il volumetto, «E c'è questo ragazzo, no? Shion.» Masticava la gomma ed era curioso starlo ad ascoltare mentre se la passava da un lato all'altro della bocca per poi fermarsi a fare dei piccoli palloncini. «Questo ragazzo vive in una città dove la sorveglianza è molto stretta e una notte aiuta un suo coetaneo, Nezumi, che è appena fuggito da un istituto di correzione. Così quando Nezumi se la dà a gambe Shion si mette nei guai.»
«Sembra appassionante.»
«Lo è!»
Alessandro si rivolse all'uomo. «Ne dà una copia anche a me? Del primo volume però.»
L'uomo tornò a rovistare nella scatola e quando glielo consegnò Alessandro rimase perplesso, era tutto in caratteri giapponesi.
«Scusi non ce l'ha in italiano?»
«È ancora inedito in Italia» lo informò il ragazzo.
Alessandro si imbronciò. «Peccato, mi sarebbe piaciuto leggerlo.»
«Se vuoi te lo traduco io» fece a quel punto il ragazzo.
«Dici sul serio?» chiese Alessandro sorpreso e colpito al contempo. Il ragazzo assentì con un sorriso.
«Piacere, mi chiamo Antonio» disse porgendogli la mano fornita di finte forbici. «Stai attento alla stretta o te la porto via!» esclamò divertito.
Alessandro rise e si presentò.
«Senti, sei venuto da solo qui?» chiese Antonio. Il ragazzo annuì. «Ti va di venire con me? Tra poco comincia la conferenza di Akemi Takada.»
Alessandro accettò e si diressero verso la sala adibita all'evento. Presero i primi posti, in modo da vedere meglio l'artista che aveva disegnato celebri anime come "Lamù", "È quasi magia Johnny", nonché il celeberrimo "L'incantevole Creamy". Quando la videro entrare i presenti fecero un lungo applauso. Era una donna minuta, ma graziosa, quasi sulla sessantina anche se ne dimostrava meno. Si mise a parlare per un po' del proprio lavoro, rivelando di non mostrare altri particolari interessi se non quello di disegnare continuamente e in tutte le salse la sua beniamina Creamy.
«Che noia» commentò Alessandro sussurrando ad Antonio, «Non può non avere altri hobby!»
Questi lo zittì con un dito. «È praticamente un guru nel suo campo» disse, ma dal sorrisetto che gli sfuggì poco dopo Alessandro intuì che anche lui la pensava allo stesso modo.
Poi la Takada prese due grandi fogli su cui erano stilizzati in bozza due dei suoi personaggi più famosi - tra cui ovviamente Creamy - e tramite dei pennelli e dei colori ad acquerello cominciò a dipingere. I due ragazzi osservarono con attenzione mentre la donna trasformava in opere d'arte i disegni che aveva preparato per l'occasione.
«A dirti la verità io non amo molto Creamy» confessò Alessandro, «Preferisco Orange Road.» Antonio annuì.
«Condivido. Creamy è un po' troppo da ragazzine. ...Però mi piace lo stesso» aggiunse mostrandogli un sorriso a trentadue denti. «Sarà che in fondo al cuore mi sento un po' ragazzina anch'io.»
Alessandro rise sotto i baffi, attirando l'attenzione dell'artista che in quel momento stava rispondendo a una delle domande dei presenti. Si scusò gentilmente in inglese e diede una gomitata al fianco di Antonio che se la rideva ancora.
Alla fine della giornata avevano fatto un sacco di cose: un torneo di spade, un gioco di strategia in cui a turno entrambi avevano battuto abilmente tutti i seduti al tavolo, avevano visto la mostra per il settantacinquesimo anniversario di Batman, la premiazione dei cosplay più belli, avevano girato per stand comprando fumetti e chincaglie in quantità e avevano concluso in bellezza col concerto di Cristina D'Avena.
A fine giornata Alessandro gli aveva chiesto se il giorno dopo si sarebbero rivisti di nuovo lì - l'evento sarebbe durato tre giorni di fila e lui non se ne sarebbe perso nemmeno uno.
Antonio scosse la testa e sospirò.
«Non posso» disse a malincuore. «Devo lavorare. Avevo la possibilità di venire solo oggi, così ne ho approfittato.»
«Dove lavori?»
«Al Pegaso.» Alessandro aveva sentito nominare decine di volte quella discoteca, ma non c'era mai andato, un po' per paura, un po' perché non avrebbe avuto con chi andare. «Aiuto con i costumi» lo informò.
«Beh, direi. Hai talento» commentò Alessandro dando un'occhiata più approfondita al cosplay di Edward. Non era una di quelle cose confezionate, si vedeva che era fatto a mano e con cura nei dettagli.
«Grazie! Vieni a trovarmi se ti va. Io sarò lì alla serata di domani sera.»
Alessandro storse il naso. «Non frequento i locali gay.»
«Non è mai tardi per cominciare» lo esortò Antonio.
Alessandro si strinse nelle spalle, le discoteche non facevano per lui.
Era un po' dispiaciuto, gli sarebbe piaciuto passare con lui anche le altre giornate della fiera. La verità era che gli sarebbe bastato anche il solo rivederlo.
Si scambiarono i numeri per tenersi in contatto e si salutarono.
«Ci sentiamo, così ti traduco "No.6"» ammiccò.
Alessandro lo salutò con un cenno della mano e lo vide sparire in auto con un gruppo di ragazzi che erano venuti a prenderlo. Da dentro l'auto, sparata a palla, Kylie Minogue cantava "We're on a timebomb, it might not last long..."


I restanti giorni di fiera del fumetto non furono così speciali come Alessandro aveva immaginato all'inizio, quando aveva comprato i biglietti. Senza Antonio tutto sembrava meno divertente.
Pensò costantemente a lui, ma non lo chiamò e non rispose ai suoi messaggi su WhatsApp in cui cercava di convincerlo a fare "un salto o due" in discoteca.
Ciò che lo aveva sempre bloccato nel fare la qualunque cosa gli piacesse veramente era quello che gli altri avrebbero potuto pensare di lui. Aveva sempre temuto il giudizio degli amici, dei suoi compagni di scuola, dei professori, dei suoi genitori. Ma quella sera si era reso conto che se davvero le cose dovevano cambiare all'università, da qualche parte avrebbe pur dovuto iniziare. E se quella non poteva essere l'occasione giusta per fare un tentativo, allora quale lo era?
Alla fine si decise, ci sarebbe andato.
Il Pegaso's Club era una discoteca che si trovava lungo la strada che conduceva ai vari lidi della playa catanese. Il club era nato nel 1994 e da allora era stato un punto focale della movida gay catanese.
Alessandro non c'era mai stato. Aveva sempre evitato di venire a contatto con la realtà associata a quella parte di sé che cercava di tenere nascosta agli altri e che era venuta fuori quando a sette anni si era innamorato di Ken il guerriero.
Quella sera si era sentito finalmente pronto a uscire dal guscio (un modo di dire che nel suo caso calzava a pennello). Non aveva amici gay e Antonio era stato il primo che avesse conosciuto personalmente. Fino ad allora le sue conoscenze erano state esclusivamente virtuali, non era mai riuscito a portarle al di fuori della chat in un tipo di rapporto che fosse anche solo amichevole.
Adesso voleva ribaltare le cose. Prendere in pugno la situazione, combattere i propri demoni interiori e concretizzare nella realtà.
Parcheggiata l'auto di famiglia - che i genitori avevano concesso di prestargli dopo un lungo tira e molla - i ragazzi avevano cominciato a guardarlo come un pezzo di carne fresca sventolata davanti a un giaguaro. Si sentì in soggezione, non gli era mai capitato di essere osservato in modo così insistente.
Si era diretto alle casse un po' titubante e un ragazzino magro e con una maglietta di Madonna gli aveva chiesto se aveva la tessera dell'arcigay. Alessandro scosse la testa e cominciò a pensare di aver fatto tanta fatica inutilmente, non aveva nemmeno idea che servisse una tessera per entrare. Pensava che il fatto di essere gay fosse un requisito più che sufficiente. Ma il ragazzo specificò con una certa acidità e impazienza che era necessaria per entrare.
Il nuovo Alessandro - quello che non si sarebbe lasciato intimorire da nessuno - stava per uscire fuori prepotentemente per rispondergli con un bel "Datti una calmata", quando Antonio spuntò alle sue spalle all'improvviso.
«Sei venuto alla fine!» esclamò.
«Beh, sì» rispose lui salutandolo con un bacio sulla guancia. Antonio era molto diverso da come lo aveva visto alla fiera del fumetto. In realtà quella parrucca nera e scompigliata del suo travestimento nascondeva una chioma bionda e cortissima con una cresta al centro che partiva dalla fronte e finiva sulla nuca.
«Lui è con me» fece Antonio rivolgendosi al ragazzo della cassa, questo annuì disinteressato e li lasciò entrare mentre faceva il biglietto alla folla di ragazzi tirati a lucido che si era accumulata dietro Alessandro.
Antonio lo trascinò per il polso e quando arrivarono alla pineta vicino al locale lo osservò e si posò una mano sul mento, reggendo il gomito con l'altra mano.
«Caspita, pensavo fosse una parrucca quella che avevi a Etnacomics» disse senza peli sulla lingua. «Ti serve decisamente un cambio di look» lo informò. «Una cosa veloce, sei già carino di base.»
Alessandro parve sussultare e Antonio gli tolse gli occhiali.
«Senza non ci vedo bene» disse mentre Antonio glieli riponeva nel taschino della camicia.
«Non ti serviranno. Nel buio non vedrai comunque molto.»
«Buio?» chiese confuso.
«In pista» specificò il ragazzo, «Non è poi così illuminata.» Gli aggiustò i capelli portandoglieli all'indietro e tenendoglieli fissi con la mano. «Uhm!» commentò compiaciuto. «Seguimi, ti faccio diventare un modello stasera.»
«Non è necessario, davvero» rispose Alessandro, ma Antonio lo stava già trascinando dentro un camper adibito a camerino. Si trovarono in mezzo a un mucchio di ragazzi che si stavano truccando e vestendo per lo spettacolo di quella sera. Erano le drag queen che avrebbero movimentato la serata. Alessandro salutò tutti timidamente, ma questi quasi lo ignorarono, erano troppo presi dalla prova trucco.
«Ecco qua» fece Antonio prendendo un tubetto di gel. Se ne fece scivolare un po' sul palmo e poi dopo aver strofinato le mani l'una con l'altra gliele passò tra i capelli scompigliandoglieli un po'. Lo osservò per un momento da lontano e gli diede un'altra sistemata restando a pochi centimetri da lui.
Alessandro avvampò e si sentì strano.
«Ora sì che va bene» commentò Antonio soddisfatto. «Non sembri più Rivaille.»
«Chi?» chiese confuso Alessandro.
«Un personaggio de "L'attacco dei giganti". Ti presto anche quel manga se vuoi.»
Alessandro rimase per un attimo sulle sue, stupito da tanta gentilezza, poi annuì.
«E ora si balla! Va' e cerca la tua preda» lo spronò strizzandogli l'occhio. «Io ho ancora un sacco di lavoro da fare. Ci vediamo più tardi, appena finisco, dopo lo spettacolo.» Gli schioccò un bacio sulla guancia e tornò dalle drag queen per aiutarle con gli abiti.
Alessandro si toccò la guancia e arrossì. Uscì dal camper sorridendo ed entrò senza problemi in discoteca. Era un posto ampio, accogliente, con una pineta all'esterno dello spazio adibito alle piste, una grande piscina al centro e un bar a pochi passi da essa. Le piste erano due e la gente non le aveva ancora affollate.
Non sapendo bene cosa fare, prese posto su uno dei divanetti di vimini e si guardò attorno. Ce n'era di tutti i tipi. Orsi, fashion victim, prime donne, hipsters e chi più ne ha più ne metta.
Lui non rientrava in nessuna di quelle categorie, ma era comunque stato adocchiato - e anche di brutto dopo che Antonio gli aveva sistemato i capelli. Però non si sentiva ancora pronto al rimorchio per cui rimase tutta la sera per lo più da solo. Ogni tanto qualcuno si avvicinava e gli chiedeva se aveva da fumare. Scuoteva la testa cortesemente e se ne restava immobile al suo posto, non capendo che quella era il più delle volte una tattica per attraccare.
A fine serata stava quasi per andarsene annoiato quando Antonio lo aveva raggiunto tutto sorridente.
«Eccoti qua!» aveva esclamato gettandogli le braccia intorno al collo. «Ti stavo cercando. Che hai fatto? Ti sei divertito?»
Alessandro si strinse nelle spalle.
«Scusami se sono sparito per tutta la sera, ma sai... è lavoro. Queste drag sono così esigenti!»
Avevano passato il resto della nottata assieme e si erano rivisti nei giorni seguenti. La loro era stata una conoscenza così rapida che avevano bruciato le tappe. Erano diventati amici pur non sapendo praticamente niente l'uno dell'altro.

Così una mattina si erano incontrati al Giardino Bellini e Antonio gli aveva raccontato di sé.


#FabDraka #Tacchetto12 #GayCalcio

lunedì 24 novembre 2014

TACCHETTO 12 - CAPITOLO 1: FABRIZIO

#FabDraka #Tacchetto12 #GayCalcio

TACCHETTO 12 - CAPITOLO 1:
FABRIZIO



Dacché l'aveva conosciuto Fabrizio era certo che l'avrebbe amato per tutta la vita. Era stato un colpo di fulmine e sentiva che le loro strade non si sarebbero mai separate. Chiunque avrebbe potuto dirgli di lasciar perdere, di abbandonare facili illusioni, perché quel tipo di attaccamento non lo avrebbe portato da nessuna parte. Ma lui si era lasciato cullare dai sogni di gloria e non si era arreso. Aveva continuato ad amarlo con la stessa intensità che aveva provato da bambino, quando si erano conosciuti.
Il calcio era tutta la sua vita.
Le prime partite - quando era ancora troppo piccolo per capire bene il gioco - le aveva guardate col papà alla tv e una in particolare gli era rimasta impressa nella memoria, non tanto per la partita in sé, ma per i sentimenti che aveva scatenato nel genitore. Era la finale dei mondiali dell'82, quando lo aveva visto piangere. Era ancora in tenera età a quei tempi, ma era stato un evento così raro vederlo in lacrime che non l'aveva più dimenticato. E aveva capito che per reagire in quel modo doveva esserci qualcosa di straordinario in quel gioco. Qualcosa di speciale che lui ancora non riusciva a capire, ma che si sarebbe impegnato a scoprire.
Inizialmente aveva studiato suo padre. Ogni volta che giocava l'Inter e decideva di guardarla in tv sembrava si preparasse per un rituale. Prendeva una bottiglia di birra ghiacciata e la posizionava sul tavolino davanti alla vecchia venti pollici, prendeva dall'armadio la sciarpa nerazzurra e se l'avvolgeva al collo - anche se a casa faceva caldo - e chiedeva silenzio assoluto per tutta la durata dell'evento. Fabrizio l'avrebbe osservato senza fiatare, ma ne avrebbe imitato ogni singolo gesto mentre lui, ignaro, fissava lo schermo con gli occhi sbarrati.
Lo emulava esultando quando lo faceva lui, fingendo di portarsi un'immaginaria birra alle labbra e poi arrabbiandosi come lui quando veniva fatto un fallo o l'arbitro fischiava un fuorigioco che non c'era. Sua madre faceva capolino dalla porta e li spiava divertita.
Quando poi l'Inter vinceva allora il padre usciva da quella trance momentanea e lo abbracciava forte per la contentezza riempiendolo di baci. Cominciò così ad associare quell'esplosione di gioia a quello sport.
C'era stata poi quella volta che l'aveva portato allo stadio. Quello sì che era stato un giorno memorabile! Aveva sei anni ed erano andati a tifare la loro squadra in Coppa Italia. Sugli spalti tra lo stuolo di tifosi che si agitavano, scalmanavano e imprecavano (il padre aveva sempre evitato di farlo davanti a lui) Fabrizio si era trovato catapultato in un mondo di passione e tormento. E finalmente aveva realizzato cosa avesse provato il padre in quei fatidici mondiali.
Da allora avevano cominciato ad andare allo stadio più spesso sotto sua richiesta, anche se a giocare non era la loro squadra. Ciò che Fabrizio voleva rivivere era quell'emozione. Il compartecipare a uno sfogo collettivo di gioia e dolore.
Poi un giorno l'incanto venne spezzato.
Suo padre se ne andò, lasciandogli un vuoto incolmabile che avrebbe cercato di riempire con i gol guardati alla tv, ma che alla fine non lo avrebbero mai saziato a sufficienza.
Suo zio Nunzio aveva provato a portarlo allo stadio, ma non era più stata la stessa cosa. Non per questo però il suo amore per il calcio scemò, anzi, si ingigantì. E a ogni partita dell'Inter ripeteva i rituali del padre, sostituendo la birra con la coca-cola. Un modo per commemorarlo, perché era stato lui a trasmettergli la passione per quel gioco.
Talvolta la madre lo osservava stando sul ciglio della porta - attenta a non farsi notare - e con straziante malinconia rivedeva in lui una parte di suo marito. Un bambino di otto anni che ricalcava le orme del padre con i gesti che un tempo gli erano appartenuti.
Da allora Fabrizio era cresciuto per strada e lì si era fatto le ossa. Aveva capito che per colmare quella mancanza avrebbe dovuto darsi da fare in prima persona. Grazie alla pratica costante imparò in fretta e diventò scattante come un fulmine. Non gli importava far altro. "Il team" pensava, "Bisogna fare di tutto per il team." Era un pensiero che lo assillava da mattina a sera.
La madre lo rimproverava sempre dicendo che avrebbe dovuto darsi di più da fare a scuola, ma la strada gli aveva insegnato la lezione più grande: non arrendersi mai.
Crescendo era entrato nel Campionato Allievi Regionali, un risultato eccezionale per un ragazzo che era solo agli inizi della propria carriera.
Aveva anche cambiato squadra del cuore. Non gli sembrava corretto tifare per l'Inter quando da sempre aveva vissuto a Catania. Per questo motivo non appena i rossazzurri erano entrati in serie B aveva deciso di seguirne il corso degli eventi, fino a vederli arrivare in serie A, quel giorno in cui anche lui - proprio come aveva fatto il padre a suo tempo - si era messo a piangere per la sua squadra.
Il papà non avrebbe criticato la sua scelta. Era certo che se fosse stato ancora vivo sarebbe riuscito a convincerlo che tifare per la squadra della propria città era dovere di ogni catanese che si rispetti. Ed era convinto che avrebbe appoggiato il suo sogno, quello per cui stava lottando con le unghie e con i denti.
Ora che si trovava negli spogliatoi a cambiarsi dopo l'ultimo allenamento si sentiva quasi un re. Non avrebbe mai immaginato di riuscire ad arrivare a un passo dalla serie B. Per anni aveva giocato in C, ma il suo era un talento che non andava buttato e il suo mister lo aveva capito subito. Per questo il procuratore sportivo stava spingendo per farlo entrare in serie B quando aveva ancora l'età per poter giocare. Quelle erano gambe fatte per correre, per dare potenti calci e mandare la palla dritta in rete. Sì, Fabrizio era potente e lo sapeva. Ma ciò che non sapeva era quanto infide potessero essere le persone. Quanta invidia si celasse dietro i falsi sorrisi dei suoi compagni di squadra.
Non aveva mai avuto l'animo del ragazzo socievole, pur possedendo un grande spirito di squadra. Al di fuori del gioco era un tipo schivo, che amava stare per i fatti suoi e a cui non piaceva quando la gente si intrometteva nei suoi affari. Ma non per questo non aveva amici, li aveva eccome, pochi ma buoni. Spesso si ritrovavano la sera a girare per locali, a bere fiumi di birra e canzonare tutti coloro che a loro parere meritassero derisione.
Sua madre non approvava il suo stile di vita, lo riteneva dissoluto, un buono a nulla nonostante lavorasse da anni presso l'officina dello zio Nunzio. Aveva lasciato la scuola per lavorare con lui, così non aveva preso il diploma, a gran malincuore della madre che da allora aveva deciso di lavarsene le mani del suo futuro.
Zio Nunzio era il fratello minore di suo padre, anche lui gli era stato molto affezionato. Per questo motivo quando era morto, aveva deciso di prendere sotto la propria ala il nipote, che ormai considerava quasi come un figlio. Lui di figli suoi non ne aveva avuti. Non si era mai nemmeno sposato e questo non perché non avesse trovato la donna giusta, ma perché non voleva sentirsi in trappola. Dopo il matrimonio dei genitori di Fabrizio si era reso conto che il matrimonio era una gabbia e che lui era uno spirito libero e non avrebbe mai accettato di farsi comandare a bacchetta.
Fabrizio aveva cominciato a pensarla come lui, non si sarebbe sposato. No, preferiva di gran lunga passare da una relazione all'altra senza mai impegnarsi veramente. Aveva avuto decine di ragazze, ma nessuna aveva mai fatto veramente al caso suo. Così le sue relazioni si basavano su incontri fugaci nei locali, qualche parola scambiata all'orecchio, fiumi d'alcol e alla fine sesso nei bagni o a casa della ragazza di turno. Solo una volta si era fidanzato seriamente, non era durata più di tre mesi, ma era stata la relazione più lunga avuta fino ad allora. Si chiamava Melania e gli era piaciuta davvero. L'unica che avesse provato a guardare oltre l'apparenza.
Era indubbiamente un ragazzo che non passava inosservato. Atletico, con muscoli possenti - merito di anni di palestra -, sempre vestito all'ultima moda, ma non per questo necessariamente secondo i canoni del buon gusto.
Melania era riuscita a vedere altro in lui, forse del potenziale. Era stata lei a incoraggiarlo inizialmente a intraprendere la carriera calcistica, ma non sapeva se fosse o meno perché lo riteneva capace o solo perché sposare un calciatore era il sogno di molte ragazzine.
Lui però non voleva sposarsi, d'altronde a quei tempi aveva ancora solo diciassette anni e il matrimonio non era tra le sue priorità. Il gioco alla fine aveva vinto su tutto, anche su di lei, per questo riteneva di non poter amare altro. Il calcio era per lui così importante da lasciare in secondo piano ogni cosa.
Vi si era dedicato anima e corpo negli anni seguenti, raggiungendo altissimi livelli professionali, ma uno sventurato giorno la sua vita cambiò per sempre.
Un suo amico, uno non molto stretto ma con cui spesso intratteneva delle lunghe conversazioni al bar, gli aveva confidato di trovarsi in gravi ristrettezze economiche. Aveva perso il lavoro in seguito alla grave crisi economica e ora si trovava disoccupato e con tre figli sulle spalle.
«Mi pignoreranno casa» gli aveva detto abbattuto. «Come farà la mia famiglia?» Poi era scoppiato in lacrime.
Fabrizio si era sentito in soggezione. L'avrebbe aiutato volentieri se avesse avuto a disposizione il denaro, ma purtroppo da qualche tempo le cose da zio Nunzio non andavano per il meglio e lui tra serate in discoteca e alcol a go go era rimasto al verde.
Ci aveva pensato molto prima di prendere quella decisione, ma alla fine si era convinto. Non avrebbe lasciato un amico nei guai mentre c'era gente che sguazzava nell'oro.
Non era un novizio in certe cose - la strada gli aveva insegnato più di quanto avrebbe mai ammesso -, adesso però si era spinto oltre. Aveva organizzato un colpaccio. Quel fine settimana avrebbero svaligiato la casa di un magnate della finanza catanese. Fabrizio lo aveva conosciuto qualche tempo prima, quando gli aveva riparato l'auto, l'uomo se l'era fatta consegnare personalmente a casa. E Fabrizio ricordava tutto il lusso di cui si circondava quell'uomo, lusso di cui in parte avrebbe anche potuto fare a meno.
L'aveva poi incontrato il giorno prima in banca e gli aveva sentito riferire a un collega che sarebbe partito per il fine settimana con la famiglia. Lì era scattata la molla. E i suoi pensieri avevano cominciato a correre così velocemente che non si era nemmeno reso conto che quello che aveva in mente era un piano criminale e che lui non aveva bisogno di queste cose per campare.
Lui no, però il suo amico sì. Così si disse che l'avrebbe aiutato e il giorno seguente aveva confidato all'amico in questione il suo piano. Quest'ultimo non era sembrato particolarmente scosso dalla proposta e aveva accettato.
La casa in questione si trovava fuori dal centro, in un posto facilmente raggiungibile in moto. Usarono il cinquantino di Fabrizio - l'amico aveva insistito a riguardo, preferendo un mezzo che in caso di guai si sarebbe mosso più velocemente nel traffico rispetto a un'auto. A Fabrizio era sembrata una buona idea.
Così, quando tutto fu pronto, si prepararono per l'impresa. Agirono a notte fonda, in modo da muoversi con più facilità. Ma i loro piani non andarono come previsto.
Mentre stavano frugando tra cassetti e armadi qualcuno doveva aver visto la luce delle loro torce dentro la casa, perché improvvisamente sentirono da lontano le sirene della polizia. Raccattarono quanto più velocemente quel poco che erano riusciti a prendere e si dileguarono fuori dalla finestra. Corsero a più non posso e l'amico staccò da Fabrizio di almeno dieci metri mentre raggiungevano la moto. Proprio in quel momento però un poliziotto sbucò da una delle siepi del giardino e si lanciò su Fabrizio che cadde a terra con lui. L'amico si voltò un secondo, uno solo, prima di riprendere a scappare col bottino ancora in mano.
«Infame!» gli aveva urlato Fabrizio mentre il poliziotto gli spingeva la faccia a terra e lo ammanettava.
Aveva passato la nottata in cella, ma avendo deciso di consegnare la refurtiva e non avendo altri precedenti penali fu rilasciato dopo due giorni. Il suo "amico" l'aveva fatta franca, ma ci avrebbe pensato lui a fargliela pagare.
Tutto ciò che desiderava una volta uscito da lì era infilargli un coltello nella pancia, ma non appena si trovò davanti la macchina di zio Nunzio che stava ad aspettarlo fuori dal commissariato, ogni altro pensiero scivolò via.
Lo accompagnò a casa senza dire una parola, non che fosse necessario, nel suo sguardo aveva già letto chiaramente tutta la sua delusione.
Avrebbe voluto spiegargli tutto, dargli la sua versione dei fatti, fargli capire le cose dal suo punto di vista, ma sarebbe stato inutile. Non c'erano scusanti per il suo comportamento.
Arrivato a casa trovò sua madre seduta al tavolo. Aveva le mani poggiate su di esso e stava piangendo. Zio Nunzio si era avvicinato a lei e le aveva posato le mani sulle spalle per farle coraggio. Quando vide entrare il figlio non osò rivolgergli la parola. Lo sguardo di Fabrizio si posò prima su di lei, poi sullo zio che lo guardava costernato. Fabrizio abbassò il capo, sentendosi per la prima volta veramente colpevole dacché aveva architettato quel piano assurdo.
Cercò di dire qualcosa, ma lo zio lo fermò subito con un gesto della mano.
«Vattene in camera» gli disse. «Io e tua madre dobbiamo parlare.»
Fabrizio obbedì e poco dopo lo zio lo raggiunse. Non riusciva a spiegarsi come un bravo ragazzo come lui si fosse invischiato in certe cose. Nemmeno Fabrizio lo sapeva più. Lo aveva fatto per un bene superiore, quello di aiutare un amico in difficoltà, che però gli aveva voltato le spalle quando era stato lui a chiedere aiuto.
Sua madre - che avrebbe voluto mandarlo via di casa - decise sotto pressione dello zio di tenerlo con sé, ma non volle più guardarlo in faccia da quel momento. Pur sapendo che forse era arrivato il momento di diventare indipendente dalla propria famiglia, il ragazzo rimase.
Un paio di giorni dopo arrivò la comunicazione che distrusse ogni sua speranza.
Si era recato come al solito agli allenamenti settimanali, ma quel giorno il mister lo aveva convocato in privato per parlargli. Era venuto a conoscenza del crimine commesso e aveva deciso di radiarlo dalla squadra.
Il ragazzo impallidì e si sentì crollare il mondo addosso. Cercò delle giustificazioni, aggrappandosi a qualunque cosa potesse far cambiare idea al proprio allenatore, ma fu inutile, perché anche il procuratore era dello stesso parere. E in quel momento stesso Fabrizio realizzò di essersi giocato il futuro.
Sarebbe stata una punizione esemplare se Fabrizio non l'avesse presa invece come una grave offesa personale macchiandosi anche di aggressione.
A quel punto aveva gettato alle ortiche il proprio talento. Anche perché vista la sua età difficilmente sarebbe stato acquistato da un'altra società.
Provò vergogna per se stesso e si chiese se suo padre lo stesse osservando dall'alto. Sarebbe stato deluso anche lui.
E la cosa peggiore era che aveva perso tutto per quello che in un primo momento gli era sembrato un gesto di puro altruismo, ma che ora capiva essere una grande idiozia. Fra l'altro il cosiddetto "amico" era anche sparito senza lasciare traccia di sé.
Passò mesi a vivere come uno zombie, rassegnato all'idea di aver perso la sua occasione d'oro. All'officina era mentalmente assente e svolgeva il suo lavoro come un automa, a casa era poco più di un fantasma. Trascorreva interi pomeriggi al computer, collegato su Facebook, come un essere ormai privo di stimoli. Poi notò una notizia che lo colpì.
"Cercasi calciatori per squadra amatoriale. Requisiti richiesti: serietà, passione, dedizione."

Dentro di lui tornò quella carica che un tempo lo aveva portato a raggiungere importanti obiettivi. Si disse che poteva essere un nuovo inizio, così rispose all'annuncio. Quello a cui non aveva prestato attenzione era però la fonte da cui proveniva la notizia: il circolo arcigay della zona.