domenica 23 dicembre 2012
Rieccomi qua con delle novità
Ciao a tutti, è da un po' che non mi faccio vivo e questo perché sono stato molto impegnato. A fine novembre ho avuto modo di entrare a far parte di un corso di formazione in Produzione e Post-Produzione Cinematografica e qualche giorno fa mi sono dedicato alla stesura di una sceneggiatura, il cui soggetto è stato selezionato per farne un cortometraggio.
L'inizio di queste vacanze natalizie, inoltre, mi ha riservato una sorpresa... Una casa editrice mi ha offerto un contratto editoriale. Dovrei essere la persona più felice del mondo, ma ovviamente mi hanno richiesto un compenso per tutelarsi. D'altronde sono un esordiente e si sa che per noi spesso non c'è spazio se non ti sei fatto già un nome. Ora mi chiedo se investire nel mio futuro potrà davvero portare a dei frutti o se mi ritroverò invece con un libro pubblicato, ma più morto di fame di prima (io che già non navigo nell'oro). Farsi un nome non è facile, come la vita dello scrittore di per sé (lo so, ho voluto la bicicletta e ora mi tocca pedalare), ma è stata una scelta per passione e le passioni sono dure a morire, specie se incominciano a interessarsi a te. Prossimamente vi farò sapere se ho deciso o meno di accettare o se invece continuerò la mia spasmodica ricerca di un editore. Nel frattempo ogni consiglio è ben accetto, à bientôt!
domenica 28 ottobre 2012
Ricordi del passato...
Poco fa cercando in vecchie scatole ho trovato i miei vecchi diari e le lettere che io e la mia migliore amica ci scrivevamo alle scuole medie. Sembra passato un secolo, neanche le ricordavo più. E leggendole mi sono reso conto di quanto si possa cambiare negli anni, di quanto si possa passare in fretta dall'età dell'innocenza a quella delle responsabilità e della durezza della vita. Ci sono momenti in cui ti chiedi "Ma io ero veramente così?" e ti sorprendi della risposta, perché non ti riconosci più in quelle parole. Si cambia molto rapidamente e si diventa altre persone, non sempre quelle che avremmo voluto essere. E' strano come ci si crei un'idea di sé totalmente diversa quando si è più piccoli. Spesso si è ingenui a quell'età, è vero, ma comunque ti fa uno strano effetto vedere come sei adesso e ricordarti come avresti voluto essere o come avresti voluto che la tua vita fosse. E' molto dolce comunque il sapere di aver avuto, anche se per un breve periodo di tempo, un'innocenza tale da farti pensare che nulla poteva andare storto nella tua vita, che tutto sarebbe andato nel verso giusto.
Sapere poi che certe persone continuano a restarti accanto e ti sostengono dopo tanti anni di amicizia è incoraggiante, dà un senso di benessere e per un attimo ti fa scordare che forse avresti potuto essere migliore se avessi fatto le scelte giuste...
mercoledì 3 ottobre 2012
Capitolo 1 di "Principi azzurri a luci rosse"
Ecco
a voi il primo capitolo tratto dal mio nuovo libro "Principi azzurri a
luci rosse". Buona lettura!
CAPITOLO 1: UN MONDO
FALLOCENTRICO
Noi uomini siamo
fissati col sesso, è il nostro migliore amico. Ci accompagna durante gli anni
della crescita diventando come una droga, ci consola, ci fa sentire meglio e
finiamo col non poterne fare a meno. La natura sembra averlo scritto nel nostro
DNA.
Tutti in fondo
siamo un po’ sporcaccioni, ma molti di noi sanno nasconderlo meglio di altri.
Ci sono uomini che sanno quello che vogliono e come ottenerlo e altri che si
atteggiano a gran rimorchiatori anche se non hanno nulla da offrire; c’è chi si
vanta di esperienze sessuali inimmaginabili da mente umana, quando in realtà ha
mezzo baciato una sconosciuta durante il gioco della bottiglia e chi invece il
sesso lo fa, lo sa fare e anche bene.
A volte pare quasi
lo scopo della nostra vita e quando ci avviciniamo alla meta sembriamo
impazzire, il testosterone va a mille e noi uomini ci riduciamo a questo, ormoni
in confusione.
A quelli come me poi il sesso piace ancora di più.
Amiamo farlo in modo selvaggio, animalesco, dolce e a tratti violento, veloce oppure
lento, purché sia intenso. Niente questioni in sospeso o sensi di colpa.
Ci piace perché ci
fa sentire vivi, perché non ci dà da riflettere sul motivo della nostra
incessante ricerca di corpi nuovi da amare, soddisfare, percepire mediante il
solo sfioramento della pelle. A volte è un modo per sfuggire alla cruda realtà
che ci relega ai margini della società, una specie di premio di consolazione. E
trovare una sistemazione per il nostro affarino diventa quasi un’occupazione
principale.
D’altronde noi uomini
iniziamo ad affrontare la sessualità sin da piccoli. Passiamo circa il novanta
per cento della nostra vita adolescenziale a esplorarla e la ricerca non si
arresta mai. È un campo che portiamo in continua evoluzione e che abbraccia talvolta
ogni singolo aspetto della nostra giovinezza.
Capita poi di
essere talmente impazienti da voler a tutti i costi svuotare il proprio arnese
senza curarsi delle conseguenze. Il tutto pare debba essere fatto al più presto
possibile, quasi avessimo la data di scadenza stampata sull’uccello. E quando
dopo tanta ricerca troviamo una persona che potrebbe anche amarci, tendiamo a
considerarla più come l’occasione che si è venuta a presentare che come quella
giusta, quella che ci cambierà la vita. Così finiamo col fare errori a volte
irreparabili e perdiamo occasioni ben più rare di una semplice scopata.
Per cui, tirando le
somme, si può notare come il sesso diventi talvolta un’arma per proteggerci dai
sentimenti. Può essere tagliente, esplosivo, può ferirci, ma sa anche guarirci.
A pensarci è molto simile all’amore, solo che quest’ultimo è più difficile da
trovare. E conciliare le due cose non è sempre facile.
Da ragazzino mi
chiedevo se potesse esistere il sesso senza amore. Adesso ne sono convinto.
Esiste.
Troppe critiche? Affatto!
D’altronde sono un uomo anch’io e rientro nel bel quadretto che ho appena
descritto.
Mi chiamo Trent, ho
24 anni e di uomini ne conosco a bizzeffe. E quando dico “conosco” intendo
proprio in senso biblico.
Sono omosessuale,
di bell’aspetto e piuttosto giovane per il lavoro che ormai faccio da anni.
Molti mi definiscono col termine gigolò,
altri invece escort, accompagnatore, prostituto e tanti altri modi che non sto
qui a elencare. A me piace la definizione che mi diede una volta un cliente: “puttano
d’alta classe”. Ci si potrebbe chiedere cosa farà mai un prostituto per definirsi
“d’alta classe”? Bene, lo spiego subito.
Lavoro per un’agenzia
di escort strapagata, una delle migliori in effetti. Entrarci non è così
semplice e bisogna essere proprio bravi per poterne far parte.
Ho una lista di
clienti parecchio lunga, alcuni dei quali sono ormai degli habitué con cui vado a letto da anni, altri sono invece più
recenti: i nuovi arrivi li chiamo io,
perché come i vestiti di poco valore li indossi qualche volta e dopo li sostituisci
con qualcos’altro di nuovo. Di solito, infatti, questi si fanno una scopata e
poi spariscono.
C’è una grande
differenza tra i clienti abituali e i nuovi arrivi. Questi ultimi ti
contattano, ti pagano, ti scopano. Tutto qui. Gli abituali invece sono più premurosi.
Con loro instauri un rapporto speciale, ti viziano, ti coccolano, ti amano, ma
tu non ami loro e non glielo fai capire. Ti portano in vacanza con loro, ti
fanno partecipare a grandi feste senza mai farti passare per un semplice
prostituto, ma piuttosto come una sorta di compagno o al massimo un “nipote”.
Molti degli
abituali sono infatti uomini maturi, vanno dai cinquanta ai settant’anni, sono
ricchi, spesso potenti, con un lavoro eccellente, di rilievo e solitamente strapagato.
Sono uomini di successo, ma a volte completamente soli e di questo mi sono reso
conto nel corso degli anni. Non tutti sono affascinanti, ma ti vogliono bene e
te ne vorranno sempre se tu non tradirai la loro fiducia.
I nuovi arrivi non
hanno una fascia d’età prestabilita, possono andare da ragazzi che vogliono
perdere la verginità a uomini frustrati dal lavoro e dalla famiglia. Molti sono
infatti sposati, hanno figli, ma vogliono provare cose nuove (spesso sono tizi
nella fatidica crisi di mezza età), sfogando e realizzando talvolta le fantasie
più curiose. Altri lo fanno perché sono repressi sessuali. Questi clienti non
hanno la possibilità di vivere la propria omosessualità in pubblico o di avere
relazioni decenti anche nel privato, per cui passano al sesso facile.
Il servizio che
offro è pulito, spesso selvaggio, ma non violento, a meno che il cliente non lo
richieda. A riguardo ci sono delle clausole nel contratto che ci fanno firmare
prima di entrare alla Whore-Haus, il nostro quartier generale del sesso, e
questo perché a volte quando ci si lascia andare troppo può capitare di
esagerare un po’.
Durante la mia
carriera sono stati in molti a interessarsi a me e a volermi tirare fuori da
questa vita per farmi vivere da sogno. Ma io ho già tutto ciò che si può
desiderare, basta solo che lo chieda. Alcuni dei miei clienti mi fanno vivere
nel lusso sfrenato e nonostante io non abbia mai avuto grandi pretese, loro
cercano in tutti i modi di farmi stare nel totale agio. Sono stato in
tantissimi posti da quando ho iniziato e credo di essere uno dei pochi a poter
dire di aver visitato quasi tutte le magnifiche capitali del mondo. Ma non è
sempre stato tutto rose e fiori. All’inizio non era così. All’inizio non ebbi
scelta. All’inizio era uno schifo.
Iniziai a fare
sesso molto presto, ero ancora un ragazzino. Avevo sedici anni e mi ritrovai
con nulla per cui vivere o morire. Nessuno mi aiutò in quel periodo. L’unico su
cui potevo contare era me stesso.
Vivevo in una
famiglia in cui vi erano valori molto importanti. Valori che però per me non
erano mai stati nulla più che parole, senza mai essere messi in pratica. Mio
padre ci faceva vivere bene, lavorava in un’azienda importante e a casa era
presente poco e niente.
Mia madre è sempre
stata una donna forte e decisa. O almeno così appariva ai miei occhi. Era una
di quelle persone che hanno sempre la soluzione pronta a tutto e solitamente
risolveva i problemi in quattro e quattr’otto. Alcuni forse con troppa fretta.
E nonostante non andassimo molto d’accordo a volte mi capita di pensare a lei.
Riusciva a
provvedere a noi per non farci mancare nulla e a tirarci su di morale quando
stavamo male o eravamo tristi. Parlo al plurale perché eravamo in due, io e il
mio fratellino Michael di dieci anni più piccolo. E dico eravamo perché ormai
sono considerato morto per la mia famiglia.
Quando vivevo
ancora a casa con i miei non sopportavo Michael, era uno di quei bambini
piagnucolosi che si lamentano per ogni piccola stupidaggine. Adesso a volte mi
manca. Mi chiedo cosa gli abbiano raccontato mamma e papà di me.
Avevo una piccola
famiglia molto unita, ma mi sentivo sempre solo. Una cosa che mi ha sempre
fatto riflettere. Per questo motivo cercavo di trovare compagnia fuori dal
focolare familiare.
Ero un ragazzino
carino, ma dal viso troppo da bimbo per la mia età e per questo non piacevo
molto alle ragazze. Loro volevano i fighi, quelli che sembrano già uomini. Ma
ciò non voleva dire che non piacessi a nessuno. C’era anche chi apprezzava le
mie fattezze da bimbetto indifeso. Alcuni hanno la fissa per questi tipi di
ragazzi e quando vengono a sapere che sei pure vergine allora si attizzano di
più, la cosa si fa interessante due volte per loro.
Non avrei mai
sospettato che questo potesse accadere anche a me. Le attenzioni da parte sua
furono sottili e impercettibili per me. Non ci eravamo mai presentati e io lo
conoscevo solo perché veniva a scuola da noi a trovare il cugino, che era mio amico
e compagno di banco. Durante la pausa di tanto in tanto si fermava a parlare
con lui in cortile e una volta che c’ero anch’io mi fece un buffetto sul mento
poco prima di andarsene, senza alcuna motivazione. Non sapevo nulla di lui,
solo che era più grande di noi.
Da quella volta
prima che lo rivedessi passarono un paio di mesi. A quei tempi ero ancora un
po’ ingenuo e non mi accorgevo di cosa stesse accadendo intorno a me. Quel
ragazzo per me non era nessuno, solo uno che avevo visto un paio di volte in
giro, lui invece mi cercava, chiedeva di me, prendeva informazioni. Mi stava
studiando di nascosto senza che io ne avessi il minimo sospetto.
Una sera fui
invitato alla festa di compleanno di Pete, il mio compagno di banco. Quell’anno
in molti stavano compiendo i loro diciotto anni, compreso Pete, che si trovava
in classe con me per essere stato bocciato l’anno precedente.
La festa venne
organizzata di sera, in una grande casa di campagna fuori città con un
magnifico giardino curato tutto intorno. Le distese di verde sembravano
infinite. Erano un po’ tutte così le case fuori città delle famiglie più agiate.
Quando arrivai la
festa era già parecchio animata, si teneva un po’ dentro casa e un po’ nel
retro, dove tenevano il barbecue. Molti ragazzi ballavano al centro del grande
salone della casa, altri erano nel retro ad aspettare che la loro razione di
cibo arrostito fosse pronta. E visto che alla festa conoscevo pochissima gente
e con quasi nessuno avevo confidenza, mi fermai accanto a Pete, che cuoceva gli
hamburger sulla griglia.
A un certo punto mi
suggerì di andare a prendere qualcosa da bere, aggiungendo che potevo anche
bere alcolici perché nessuno ci stava controllando. Così
entrai nel salone e mi diressi in cucina verso il frigorifero, lo aprii e ne
tirai fuori una bottiglia di birra. Stavo per chiudere quando lui, il cugino di Pete, vi si appoggiò
con la mano.
«Ne prenderesti una
anche per me?» chiese gentilmente.
«Certo.» risposi
porgendogliene una.
«Grazie.» la stappò
in un secondo con il bordo dell’accendino incastrato nel palmo. Neanche mi
accorsi di come fece tanto fu veloce.
«Credo che io avrò
bisogno di un tiratappi per questa.» dissi troppo impacciato per chiedergli
esplicitamente di fare lo stesso con la mia.
«Da’ a me.» disse
stappandola in un secondo come la sua.
«Beh, grazie.» e
feci cin con la sua bottiglia. «Ora credo sia meglio che raggiunga gli altri.» dissi
con un cenno senza indicare nessuno in particolare. «Grazie ancora.» Mi
dileguai, ma non finì lì.
A un certo punto
della serata un gruppetto si era messo in cerchio a raccontarsi aneddoti
divertenti riguardo la scuola. Io mi aggiunsi al cerchio. Lui era poco distante
da noi, seduto su un divano che beveva una seconda o forse una terza birra.
Non mi tolse gli
occhi di dosso neanche per un secondo. Sembrava volesse qualcosa, ma non
riuscivo a capire cosa. Pensai se la fosse presa per essermene andato poco
prima.
Il fatto di essere
osservato così insistentemente mi dava fastidio. Decisi quindi di allontanarmi
dal gruppo e da quello sguardo indagatore per uscire fuori a prendere un po’
d’aria. Mi seguì. Dopo qualche passo sbottai voltandomi verso di lui.
«Si può sapere cosa
vuoi?» chiesi irritato. Mi guardò stupefatto. Probabilmente non si aspettava quella
reazione.
«Solo fare due
chiacchiere.» lo guardai confuso. «Non conosco nessuno alla festa a parte mio
cugino. E lui è il festeggiato, sempre circondato dagli amici. Non posso
stargli attaccato per tutta la sera.»
«Se non conosci
nessuno perché sei venuto? Non eri mica costretto.» mi resi conto di essere
risultato un po’ sgradevole, ma volevo solo che la smettesse di starmi incollato.
«Non sei un tipo
molto socievole, eh? Magari ti sembrerà stupido ma... ecco... sono venuto qui
per te.» La mia espressione di incredulità doveva essere stata più eloquente di
quanto pensassi, perché scoppiò a ridere.
«Me?» Annuì. «Non
capisco.»
«Ti va di fare una
passeggiata?» chiese. Scossi la testa. «Dai, non farti pregare.»
Lo guardai
incuriosito, poi sbuffai. «D’accordo...» mi convinsi infine.
La situazione era
piuttosto bizzarra. Non capivo il motivo per cui fosse venuto alla festa per
me. Cosa aveva da dirmi? Lo seguii attraverso il giardino. Camminavamo vicini,
ma lui non sembrava voler parlare e finimmo pian piano con l’allontanarci dagli
altri. All’improvviso prese a parlare.
«È da tempo che ti
osservo.»
«L’ho notato.»
«Davvero? Pensavo
di essere stato più discreto.» Arrossì.
«È tutta la sera
che mi guardi. Sinceramente non capisco cosa vuoi da me. Ti ricordo per caso
qualcuno?»
«Qualcosa del
genere...» rispose misterioso.
Non soppesai molto
le sue parole in quel momento, ma nascondevano molto di più. Non gli chiesi
nemmeno chi o il perché gli ricordassi qualcuno. Non mi importava a dire il
vero. Volevo solo tornare alla festa. Cominciava a fare freddo e stare lì fuori
non era poi così piacevole.
Ci fermammo nei
pressi di una quercia e a quel punto lui appoggiò una mano a essa. Mi guardava
in modo strano e di tanto in tanto sorseggiava la sua birra.
«Posso sapere che
stiamo facendo qui? Perché non torniamo alla festa?»
«Non ti piace qui?»
Incrociai le braccia per scaldarmi e scossi la testa.
«Fa freddo.» dissi
stringendomi nel mio maglione.
«Beh, per questo
non c’è alcun problema...» disse fascinoso. Lo guardai senza capire,
stringendomi nel maglioncino verde mare. «Sai, mi attrai.»
«Cosa? Perché?»
chiesi ingenuamente, non capendo che stava già succedendo, senza che lo
sospettassi nemmeno. Si mise a ridere in risposta alla mia domanda.
«Perché è così, non
so darti una motivazione.» Si avvicinò a me e mi spinse lentamente contro la
quercia. «Tu mi piaci.» sussurrò e a quel punto mi baciò.
Spalancai gli occhi,
non riuscivo a credere a ciò che stava succedendo. Lo respinsi con violenza e
mi pulii la bocca. La cosa mi disgustò.
«Che diavolo stai
facendo? Ti è forse saltato di volta il cervello?» Lui mi guardò stravolto e
preso dalla vergogna si voltò di lato.
Non capivo perché
lo avesse fatto. Io non ero attratto da lui, non lo ero mai stato di nessuno.
Non mi interessava. A quei tempi non ci pensavo molto, vivevo tranquillamente
la mia vita senza coinvolgimenti sentimentali.
«Scusami.» disse
lui. «Pensavo che... ecco...» scosse la testa fra sé. «Non importa.»
«Importa eccome! Tu
mi hai baciato. Perché? Perché lo hai fatto?» chiesi ancora scioccato e rosso
in viso.
«Te l’ho detto. Mi
piaci.»
«Ma io.. io sono un
ragazzo!»
«E sei così bello.»
Quella frase pronunciata con un velo di malinconia e dolcezza mi spiazzò,
lasciandomi totalmente senza parole. Nessuno mi aveva mai detto una cosa del
genere.
«I-io?»
Annuì e mi tenne il
mento tra le dita. «Se solo sapessi quanto ti desidero...»
Mi resi conto di stare
guardando dritto nei suoi occhi. Il mio sguardo si spostò altrove imbarazzato,
ma lui non si arrese. Anche se quel gesto avrebbe dovuto fargli capire il mio
disinteresse, lui continuò a guardarmi. Potevo sentire i suoi occhi fissi su di
me. Provò a baciarmi di nuovo, ma questa volta non mi ritrassi, lo lasciai
fare.
Non so nemmeno io
il motivo per cui lo feci. Forse il fatto di non essere mai piaciuto a nessuno,
di non essere mai stato baciato in quel momento mi fece sentire speciale.
Sta di fatto che quel
bacio cambiò per sempre la mia vita. Da quel momento nulla fu più uguale. Tutto
ciò che mi circondava cambiò radicalmente forma e colore. Osservai il mondo da
prospettive che non avevo mai tenuto in considerazione.
Si staccò da me
lentamente e riaprì gli occhi. I miei erano rimasti aperti per tutto il tempo e
lui se ne rese conto.
«Sei totalmente
negato.» disse con un po’ di arroganza. La cosa mi lasciò lì per lì ferito
nell’orgoglio e provai una profonda vergogna. Era la prima volta che baciavo
qualcuno, un ragazzo poi!
Cercai di dire
qualcosa sentendomi terribilmente in imbarazzo e tutto ciò che ne uscì fu un
farfugliamento confuso.
«Non preoccuparti.»
mi rassicurò lui. «Ti insegnerò io.» ammiccò.
Insegnarmi? In quel
momento il concetto mi sembrò irrilevante e del tutto inadeguato. Avevo appena
baciato un ragazzo e la cosa mi aveva lasciato senza parole e del tutto
impreparato a quello che sarebbe successo dopo.
Cosa significava
che mi avrebbe insegnato? Ci saremmo rivisti dopo quello che era successo?
La mia testa si
affollò di domande, pensieri e tanto altro che sembrava scoppiare. Non riuscivo
a connettere con la realtà, ero ancora immerso in quella situazione, in quel
bacio. Mi era piaciuto? No. Eppure non capivo perché stavo ancora lì davanti a
lui invece di andarmene arrabbiato. E soprattutto mi chiedevo perché lo avessi
lasciato baciarmi una seconda volta.
Mi guardò divertito
notando la mia espressione da ebete. La cosa mi fece innervosire, ma non dissi
nulla. Si scostò da me e andò via.
«Ci rivediamo ok?»
disse voltandosi per farmi un occhiolino.
«Aspetta! Non ci
siamo nemmeno presentati!» gli urlai da lontano. «Io sono Trent.»
Si voltò e sorrise.
«Lo so. Io sono Spence.» bevve un sorso e tornò alla festa. Restai ancora lì
appoggiato alla quercia e ci rimasi per un bel po’. Quando tornai alla festa
lui non c’era più. Era scomparso.
©
Fab Draka 2012
lunedì 24 settembre 2012
Prologo del nuovo libro "Principi azzurri a luci rosse"
Dopo un periodo che mi è parso quasi infinito ho finalmente pubblicato il mio terzo
libro, intitolato "Principi azzurri a luci rosse". Ecco il prologo del romanzo in questione, buona
lettura!
PROLOGO
Le sale della
Whore-Haus sono piuttosto sofisticate per quello che per molti è considerato
solo come un bordello. Abbiamo
soffici divani in velluto verde cachi, tavolini in mogano e altri in plexiglass
colorato. A ogni finestra è posta una tenda in seta color avorio e nella grande
sala ricevimenti è presente perfino un bancone da bar per intrattenere i
clienti con qualche chiacchiera tra un cocktail e un altro. Vi lavora Marcus,
un barman che per la maggior parte del suo tempo lavora in perizoma rosso
luccicante, papillon nero e polsini bianchi immacolati, nient’altro. È un
piacere alla vista e i clienti apprezzano il suo savoir faire.
Quel pomeriggio me
ne stavo seduto su uno dei divanetti della sala spettacoli, dove eravamo soliti
intrattenere i clienti con balli o hard show. Ero totalmente spensierato perché
non avevo altri impegni in agenda. Me ne stavo appoggiato con la testa sul
gomito sopra il bracciolo del divano, intento a fissare il mio intervistatore
in attesa che sistemasse l’attrezzatura necessaria.
Mise la videocamera
su un treppiedi e la puntò verso di me accendendola. Gli feci promettere di
oscurare il mio volto quando il nostro tête-à-tête
sarebbe stato montato in studio. Accettò e lasciò la videocamera puntata su
di me riprendendomi a mezzo busto, di modo che anche senza vedere il volto il
fisico facesse la sua parte. Indossavo una camicia chiara aperta sul davanti,
che metteva in mostra il petto glabro e una collanina d’argento con una piccola
croce anch’essa in argento, regalo del mio boss.
Sistemò il microfono sull’orlo della mia camicia, poi si mise seduto di fronte
a me facendo attenzione a non coprire la videocamera.
«Da dove vuoi che
cominci?» chiesi.
«Da dove preferisci.
Voglio sapere tutto.»
«Beh, non ti dirò
proprio tutto a essere sincero.» dissi con un sorrisino.
«Dai, non mi dirai
che devo farti le domande a bruciapelo!» Feci spallucce. «L’hai voluta tu!»
disse alzandosi. Ritolse la videocamera dal cavalletto e tenendola in mano
zoomò su di me, muovendosi al contempo all’indietro. Pensai volesse emulare la
tecnica di ripresa di Hitchcock, il cosiddetto effetto Vertigo, e gli chiesi se per caso stesse girando un thriller
anziché farmi un’intervista. «A cosa non rinunceresti mai per amore?» mi
interrogò mentre filmava. Cercavo di allontanarlo col piede ogni volta che si
avvicinava troppo al mio viso, ma non desisteva.
«Cominciamo già con
le domande impegnative!» esclamai. «Beh, alla mia libertà.» risposi sicuro.
«E cosa vorresti
per il tuo futuro?»
Ci pensai su. «Sai
che non lo so? Non me ne preoccupo adesso, vivo giorno per giorno.» Feci
spallucce. «Programmare non è da me.»
Staccò un attimo lo
sguardo dalla telecamera per fissarmi direttamente in faccia, poi tornò dietro
l’obiettivo. «Hai ragione, forse ti sto facendo domande troppo impegnative.
Vediamo... qual è il cibo preferito di un escort?»
«Abbiamo gli stessi
gusti di voi comuni mortali.» risposi divertito. Sapevo che cercava solo di
rendermi più semplice l’espormi, ma il modo in cui stava conducendo l’intervista
era piuttosto ridicolo, anche se a dire la verità il risultato finale non mi
importava molto.
«In realtà non ho
un cibo preferito.» risposi per accontentarlo. «Come ti ho detto non programmo
nulla, nemmeno cosa metto in bocca.» dissi allusivo.
«Evviva i doppi
sensi!»
«Cosa vuoi che ti
dica? Mi piace provare cose nuove.» Era allettante provocarlo.
«D’accordo,
lasciamo perdere le domande inutili. Dimmi allora che rapporto hai con i tuoi
genitori. Sanno quello che fai?»
Feci una smorfia.
«Forse è meglio tornare alle domande inutili.»
«Tasto dolente?» Mi
strinsi nelle spalle e dopo un po’ assentii col capo. «Ma come faccio a
intervistarti se non mi dici nulla?»
Ecco fatto, ero
riuscito nel mio intento: farlo impazzire. Estorcermi delle confessioni non
sarebbe stato facile per lui.
«Sei stato tu a
insistere per intervistarmi, io non avevo intenzione di rilasciare
dichiarazioni.» La cosa mi divertiva e lui l’aveva capito, ma doveva lavorare e
io ormai ero meno teso. Per cui smisi di cazzeggiare e cominciai a fare la
persona seria.
«Almeno saprai
dirmi qual è il tuo film preferito, se hai mai viaggiato o magari i lavori che
hai fatto prima di questo? Insomma, come sei arrivato a diventare quello che
sei adesso?»
Guardai dritto
verso di lui e mi decisi a concedergli la mia storia. Il mio sguardo per un
attimo si fece malinconico, cercai di smorzare l’emozione e di non lasciar
trasparire i miei pensieri. Mi era successo troppe volte di cercare una
risposta a quella domanda e ancora non riuscivo a trovarla.
Non sapevo se fosse
stata una scelta o una vocazione. Eppure mi trovavo lì, in quel luogo, e dalla
vita non potevo dire di aver ottenuto sempre il peggio. In un certo senso ero
stato fortunato ad avere quella chance, ad altri di solito non va altrettanto
bene.
Mi feci coraggio e
gli rivelai ciò che era giusto sapesse. D’altronde lo faceva per una buona
causa, l’informazione. E si sa, di buona informazione di questi tempi ce n’è
così poca!
«Di lavori ne ho
fatti alcuni, ma in realtà è stato questo a segnarmi per tutta la vita. Avrei
potuto, dovuto e voluto essere un altro, ma questo è ciò che sono, che sono
sempre stato e forse sempre sarò.»
© Fab Draka 2012
mercoledì 29 agosto 2012
sabato 25 agosto 2012
IL MIO GROSSO GRASSO VIAGGIO GRECO, RESOCONTO DI UNA VACANZA ELLENICA, parte 2 "Tour de force":
Il mattino seguente ci svegliamo più stanchi
del giorno prima, ma dobbiamo andare. Mettiamo in valigia quel po' che abbiamo
tirato fuori e andiamo a "parlare" con la proprietaria del B&B
per il check-out. Saluto con un «Kalimera» e lei mi chiede se voglio del caffè.
Rifiuto gentilmente e mi faccio restituire il documento che aveva preso come garanzia,
poi le do la somma pattuita. Quindi ci affrettiamo ad appostarci alla fermata
del bus davanti al B&B per dirigerci a Thira, da cui dovremo prendere il
bus che ci porterà a Oia. Quando arriviamo alla stazione centrale c'è talmente
tanta confusione che non riusciamo a trovare il bus, finché un tizio si mette a
urlare «Ia! Ia!» e capiamo che è quello il bus (Oia in effetti si pronuncia così in greco). Arriviamo a Oia e
purtroppo dobbiamo spostarci tra le stradine strette con il nostro enorme trolley.
È talmente pesante e ingombrante che quasi mi pento di essermelo portato
dietro.
Oia è molto carina, le strade sono
caratteristiche, piene di negozietti e ristorantini, compriamo qualche souvenir
e ci spingiamo verso la lunga strada (fatta anche di scale... maledetto
trolley) che ci porta in fondo alla città, dove si vede il panorama della costa
con tutte le belle casette colorate. Scattiamo qualche foto e poi siamo
costretti a tornare indietro per prendere il bus per Thira (abbiamo il
traghetto di ritorno alle 15 e non possiamo assolutamente perderlo). Inizia il
tour de force.
Alla fermata, nell'attesa che arrivi il bus,
siamo talmente affamati (non abbiamo ancora fatto colazione) che prendiamo a
volo un gyros (sarebbe il kebab greco, con l'immancabile montagna di cipolla). Ma
proprio mentre siamo a metà pranzo arriva il bus col suo frenetico bigliettaio
che fa fretta ai passeggeri per salire e carica tutti i bagagli sul bus. La
fretta è dovuta al fatto che le tratte vengono effettuate ogni mezzora e cercano
di rispettare gli orari meglio che possono.
Noi cerchiamo di nascondere il gyros per
salire sul bus, ma il tizio se ne accorge e ci dice che non possiamo salire col
cibo (ha ragione, ma anche noi abbiamo fretta). Così, nonostante ci siamo quasi
strozzati per finire il gyros in tempo per salire, ci lascia giù e sta per portarsi
il nostro trolley (sì, sempre lui, il maledetto) che è nel bagagliaio,
nonostante io tenti per più di una volta di fargli capire che dobbiamo
riprenderlo.
Prendiamo il bus seguente, ma un numerosissimo
gruppo di spagnoli occupa quasi tutti i posti del bus senza lasciare salire
altra gente. Io fortunatamente riesco a trovare due posti in fondo, ma il mio
raga che stava posando il bagaglio è rimasto indietro e non riesce a
raggiungermi. Per un momento temo che lo lascino giù, ma per un caso fortuito
viene scambiato per uno spagnolo e questi ultimi lo lasciano salire.
Sul bus mentre viaggiamo sento un italiano litigare
con una donna spagnola perché i posti erano stati tutti ingiustamente occupati
(ognuno parla la propria lingua e io che li capisco entrambi assisto allo
spettacolo). Volano una raffica di insulti e stufo dello stupido battibecco
(anche se a mio parere l'italiano aveva ragione), guardo fuori dal finestrino
il panorama della campagna di Oia. Vedo le casette bianche, gli asinelli, i bar
dove gli anziani giocano a carte su tavoli e sedie azzurre e poi campi arati e
spaventapasseri (uno dei quali era fatto con una bambola gonfiabile, giuro!).
Arriviamo a Thira e abbiamo appena un paio d'ore per visitarla prima di
prendere il bus che ci porterà al porto Athinios.
Qui la prima cosa che troviamo durante il
nostro tragitto è una grande chiesa in stile bizantino, all'interno è
bellissima (forse una delle più belle che abbia mai visto), ma purtroppo non ci
è permesso fare foto. La guardiamo ammirati da cotanta accuratezza nei dettagli
e poi usciamo per cercare di raggiungere la strada che sembra portare al centro
della città. La troviamo troppo caotica però e col trolley visitarla è quasi
impossibile (fortunatamente eravamo in due e facevamo i turni per portarlo).
Stufi, visto che la città è tutta in salita e ci sono troppi turisti, decidiamo
di tornare indietro anche perché è tardi e dobbiamo prendere il bus per Athinios.
Qui altra lotta per salire. E per evitare che
accada come a Oia con gli spagnoli, questa volta usiamo una tattica diversa. Il
mio raga prende i posti e io metto il trolley nel bagagliaio (così in caso
posso comunicare in inglese la mia urgenza nel partire). La gente quasi si
ammazza per sistemare il proprio bagaglio, ma io ce la faccio e salgo subito
sul bus. Sono fradicio di sudore per il caldo e anche per la lotta dovuta alla
paura di perdere l'ultimo bus per il porto, ma sedutomi accanto al mio ragazzo
finalmente mi rilasso. Arriviamo ad Athinios e non mi pare quasi vero di non
dover fare le corse per una volta. Attendiamo il nostro traghetto in una specie
di gate, dove fortunatamente grazie a due italiani troviamo posto per sedere.
Poi dei turisti cinesi affollano quasi completamente il gate finché non è il
momento di prendere il traghetto.
Quando siamo a bordo possiamo finalmente
rilassarci e questa volta non facciamo l'errore di sistemarci sui divanetti
dentro la nave. Andiamo direttamente sul pontile e ci mettiamo comodi lì al
sole, dove nessuno ci disturba e possiamo godere del panorama bellissimo delle
isole mentre riposiamo un po'.
Siamo esausti, ma ne è valsa la pena perché
Santorini è davvero bella da visitare. Dopo un po' ci addormentiamo, il viaggio
è lungo e arriveremo ad Atene solo a notte tarda.
Alla prox avventura...
© Fab Draka
Alla prox avventura...
© Fab Draka
venerdì 24 agosto 2012
IL MIO GROSSO GRASSO VIAGGIO GRECO, RESOCONTO DI UNA VACANZA ELLENICA parte 1: "Perissa"
Il mio viaggio inizia dal porto Piraeus di Atene,
dove io e il mio raga siamo arrivati verso le tre di notte con un bus urbano
che partiva dall'aeroporto (Atene per i trasporti è organizzatissima). Il porto
di notte è silenzioso e un po' cupo, la gente che vi si incontra poi è un
tantino particolare. Un tizio ha pisciato davanti a noi due volte senza curarsi
di nascondersi meglio, un altro che cercava cibo nella spazzatura continuava a
gironzolarci intorno e nonostante dovessimo aspettare il traghetto che partiva
alle sette e mezza, sono rimasto seduto su un muretto tutta la notte senza
chiudere occhio. L'atmosfera insomma non era delle più rassicuranti. Tuttavia
la vista di altri turisti in giro (si contavano su una mano al nostro arrivo,
ma sempre meglio di niente) ci ha rassicurati un po'.
Alle sette finalmente ci fanno salire sul traghetto
che ci porterà nel porto Athinios di Santorini. Non appena entriamo ci
fiondiamo sui divanetti e ci facciamo una mezzoretta di sonno, finché una tizia
della stazza di un armadio ci sveglia dicendo in greco (poi a gesti visto che
non la capivamo) che dobbiamo lasciare posto sui divanetti per gli altri passeggeri.
Assentiamo e non appena sparisce ci rimettiamo sdraiati sui divanetti. Nel
frattempo arrivano gli altri passeggeri che prendono posto nella sala dove ci
troviamo, ben arredata e luminosa, con tanto di tv e tavoli per mangiare. Destati
continuamente dal troppo chiasso decidiamo di restare svegli finché il dannato
traghetto non parta (con un ritardo di quasi mezzora).
Alle otto finalmente si parte, ma siamo talmente
stanchi che ci addormentiamo subito e non riusciamo a vedere il paesaggio
marino che ci circonda. Tuttavia tra un pisolino e un altro riesco a
intravedere qualche roccia, poi ci fermiamo a Paros per la prima sosta.
Decidiamo di andare sul pontile per vedere il panorama, mentre la gente che si
deve dirigere sull'isola scende dal traghetto intasando la piazzola del porto.
Così accade per altre due volte a Naxos e poi a Ios
(il panorama è più o meno lo stesso, grandi rocce che si stagliano verso il
cielo e una moltitudine di casette bianche con in mezzo alcune chiese dalle cupole azzurre).
Finalmente si arriva a Santorini. Prima di scendere
dal traghetto ci fanno appostare tutti davanti al portale-ponte che ci farà
scendere dalla nave. Sembriamo di stare in una gara di corsa. Ci mettiamo
appostati in modo da poter scendere velocemente per prendere l'autobus che ci
porterà a Thira, il centro vitale di Santorini nonché stazione di tutti i bus
che partono per le altre città dell'isola.
La gente si accalca nella piazzola non appena il
ponticello tocca terra e noi ci fiondiamo verso il bus, che fortunatamente
troviamo subito e ci viene a costare più di quello che avevamo previsto.
Arriviamo a Thira, qui ci piacerebbe fermarci, ma
abbiamo i minuti contati per poter arrivare al B&B prima che l'orario di
check-in scada. Altra corsa contro il tempo. Troviamo il bus, mettiamo la
valigia nel portabagagli e dopo una mezzora arriviamo a Perissa, dove
alloggeremo.
Qui la fermata del bus si trova praticamente
davanti al B&B (quando si dice avere culo).
Vediamo due tizi anch'essi italiani che alloggeranno nello stesso B&B, ma
non ci cagano di striscio. Ci accoglie un tizio vivace (un po' troppo forse) e
una signora che non parla una parola di inglese e con cui dobbiamo capirci
tramite il tizio (che parla inglese a modo suo). Fin qui tutto ok. Ci fanno
accomodare in quella che dovrebbe essere la reception per prendere i nostri
dati e restiamo un po' confusi. La reception sembra una lavanderia. È
una cucina, ma sparso in giro c'è il bucato della mattina (credo) e sembra di
essere entrati in casa di qualcuno mentre faceva le faccende di casa. Prendono
i nostri dati, firmo e andiamo in camera. Il mio raga apre la finestra per far
prendere un po' d'aria alla stanza e si vede comparire un asino davanti (io nel
frattempo me la rido). Dietro il B&B in pratica c'è un giardino con
l'asinello, tipico trasporto greco (o almeno così dicono, ma io non ho visto
nessuno farci un giro).
Dovremmo andare a vedere Oia, perché abbiamo poco
tempo per visitare l'isola (solo due giorni), ma optiamo per un pomeriggio
rilassante al mare di Perissa, che si rivela un'ottima scelta. La spiaggia
libera in cui ci sistemiamo si trova non molto distante dal B&B ed è fatta
di pietruzze nere, che però non fanno male se ci cammini sopra a piedi nudi. Il
mare è stupendo, l'acqua cristallina. L'unico inconveniente è che dopo un paio
di metri a nuoto sotto si crea l'abisso e se non sei abbastanza alto (come nel
mio caso) rischi di affogare. Il sole ci riscalda dolcemente alla nostra uscita
e la gente comincia a spostarsi verso i vari localini che affollano il
lungomare. Decidiamo di andare anche noi, trovando la passeggiata parecchio
piacevole. I locali si sono riempiti di gente che mangia, balla (dove fanno
musica live) o sorseggia un cocktail seduta comodamente sui divanetti. A ogni
ristorante che passiamo un cameriere ci ferma per farci accomodare, ma ho già
dato un'occhiata furtiva ai prezzi dei menù esposti e non ci penso proprio a
pagare quelle cifre. Tra l'altro una prima mazzata l'avevo già avuta al porto
di Piraeus dove, proprio per non aver guardato il menù prima di entrare, ho
pagato undici euro per due caffè disgustosi (avete presente il rimasuglio del
rimasuglio del caffè? Ecco, peggio.) e due brioche minuscole.
Ci spostiamo più avanti alla ricerca di una chiesa
dal tetto azzurro che si intravede in lontananza e che sembriamo non
raggiungere mai. Finalmente dopo aver girato tutti i negozi di souvenir e aver
oltrepassato tutti i ristoranti e i localini la troviamo, vi entriamo ed è
veramente bella. Purtroppo non abbiamo potuto fare foto perché non ci era
permesso.
Dopodiché cominciamo a sentire lo stomaco
brontolare. È
ora di cena e decidiamo di entrare in uno dei locali che sembra costare meno
(la Grecia è carissima a dispetto di quello che si dice). Il mio raga prende
un'insalata greca (feta, olive, pomodoro, lattuga e chili di cipolla), io un
souvlaki al maiale (è una specie di kebab con la piadina più piccola ma più
spessa e dentro ci vengono messi gli ingredienti tipici di un kebab con in più
uno spiedino di carne, la salsa tzatziki e
chili di cipolla). Mangiamo molto bene, anche se un mucchio di gatti affamati
ci circonda per tutto il tempo e io devo aspettare un bel po' prima di avere il
mio delizioso souvlaki.
È la notte di Ferragosto, per cui decidiamo di
passarla al mare assaggiando dei dolci tipici greci (delle specie di
marshmallow alla frutta ricoperti di zucchero a velo) e bevendo l'ouzi (il
liquore greco all'anice). Non ci vuole molto prima che ci ubriachiamo, perché
l'ouzi è fortissimo (quasi 40 gradi) e già un sorso ti fa schizzare gli occhi
fuori dalle orbite.
Passiamo la notte in spiaggia e poi verso le
due e mezza, quando ormai non si vede più nessuno in giro decidiamo di tornare
al B&B. La strada di ritorno non è rassicurante come all'andata. Prima di
tutto perché è totalmente buia, infatti solo la luna illumina il nostro
cammino, e poi perché i cani randagi sono un po' ovunque. Li sentiamo abbaiare
a qualsiasi rumore sentano e non vogliamo rischiare di essere sbranati. Se
questo non bastasse i cavalli, che dovrebbero trovarsi nei recinti delle case, sono invece lasciati liberi. Ci muoviamo piano piano, senza far troppo rumore
per non innervosire gli animali e tenendoci stretti stretti arriviamo finalmente
alla nostra stanza. Esausti ci buttiamo sul letto e ci abbandoniamo al sonno.
Il giorno dopo dobbiamo svegliarci presto per andare a Oia e poiché non abbiamo
ancora recuperato del tutto la stanchezza del viaggio, si prospetta come una
giornata faticosa da affrontare.
Alla prox puntata
© Fab Draka
domenica 5 agosto 2012
Primo capitolo di "Love Kills"
Sono nato piangendo, come tutti gli esseri umani, mentre
la gente intorno a me sorrideva felice. Ma ho deciso di terminare la mia vita
in modo da essere l’unico a sorridere quando morirò. Prenderò questa perla di
saggezza di Jim Morrison per esprimere in breve la mia vita.
Ho preferito abbandonare una via per seguirne un'altra e
se le cose andranno peggio questo non posso saperlo, ma di certo qualcosa
cambierà per sempre.
Sdraiato su quel letto freddo fissavo il muro con occhi
spenti, come se tutto ciò che mi circondava fosse evanescente. La stanza, quasi
del tutto buia a causa delle persiane socchiuse, era diventata inquietante non
solo a causa dell’oscurità che la avvolgeva, ma anche per il fatto di essere
permeata di umiliazioni e violenze che non riuscivo più a sopportare. Abusi che
si perpetravano ormai da anni.
Fissavo quel maledetto muro mentre il mio carnefice
abusava di me un’altra volta, senza che potessi pensare a nulla. La mia mente
si svuotava del tutto ogni volta che succedeva, come se mi trovassi in una
sorta di trance o in un altro luogo lontano.
All’inizio oltre alla confusione c’era stato il dolore
fisico, poi col tempo mi ero abituato, ma la sofferenza che portavo dentro era
immensa e non cessava mai.
Quando ebbe finito con me prese una mia maglietta e ci si
pulì. Lo lasciai fare, non l’avrei mai più rimessa. Rimasi lì sdraiato sul
letto mentre lui andava in bagno a pisciare, il mio sguardo rimase ancora fisso
sul muro come se in qualche modo stessi cercando di guardarvi oltre, sapendo
tuttavia che anche fosse stato possibile non vi avrei trovato granché.
Rientrò nella stanza e prese dei vestiti dalla sedia
vicino al comò, se li mise e poi tornò in bagno a darsi un’ultima sistemata,
non si era nemmeno accorto che ero ancora sdraiato sul letto. Non mi salutò
neanche prima di uscire, e perché mai avrebbe dovuto farlo? Gli oggetti non si
salutano. Mi lanciò uno sguardo
indifferente e andò via.
Spostai lo sguardo altrove, poi mi alzai lentamente
sentendo dolori atroci ovunque, sembrava quasi che mi avesse rotto le ossa. Mi
alzai a fatica e mi misi seduto sul letto cominciando a piangere
disperatamente. Fuori pioveva. La natura sembrava partecipare al mio dolore. O magari
era Dio che piangeva per me. “E perché non mi aiuta invece di compatirmi?”
pensai con rancore.
La pioggia mi faceva venire in mente il sangue, scorre
lenta su di te, scivola sulla tua pelle e può far male. Un male dannato. Il
sangue mi congiungeva al mio carnefice. Stesso sangue. Un male che mi aveva
condannato sin dalla più tenera età. Sapevo cosa dovevo fare. Ma quella sarebbe
stata davvero l’ultima volta?
Mi misi sotto la doccia. Solo in quel modo sarei riuscito
a levarmi il suo odore di dosso. Solo in quel modo avrei provato la sensazione
di tornare di nuovo puro per pochi istanti. Ma erano solo attimi. Dicono che la
felicità sia fatta proprio di questo, attimi. E bastava poco per farmi crollare
di nuovo. Scoppiavo a piangere all’improvviso senza più riuscire a fermarmi. Uscii
dal bagno totalmente nudo, ancora bagnato. Ravviai i capelli bagnati dietro la
testa, raggiunsi il suo armadio e ne tirai fuori una scatola di scarpe.
Gocciolavo tutto, ma questo non importava. Il contenuto di quella scatola era
molto più importante.
Chiusi gli occhi un istante e presi un profondo respiro,
poi la aprii. Conteneva una 9mm e un caricatore. Lui la teneva per difendersi
dai ladri. Non sapeva che avevo trovato
quella scatola pochi mesi prima e che da allora ero sempre stato tentato
dall’idea di farlo a pezzi con quell’oggetto così piccolo e così micidiale. Sotto
la 9mm vi erano alcune foto impolverate. Ritraevano mia madre. Le guardai con
gli occhi ancora gonfi per il pianto e le strinsi al petto. Ci aveva lasciati
da quattro anni, ma il suo ricordo non se n’era mai andato. Il suo cuore pieno
d’amore si era dedicato totalmente al mio bene, ma non aveva resistito e alla
fine aveva smesso di battere. Pensai che fosse andata meglio a lei che a me.
Per lei quel tragico pomeriggio l’incubo era finito, per me era appena
iniziato.
Riposi le foto sotto la pistola e richiusi la scatola.
Non era ancora il momento giusto. Non ero pronto per fare una cosa del genere.
Per secoli l’uomo aveva lottato contro se stesso, fatto stragi, carnefi-cine e
tutto senza mai rendersi conto di ciò cui andava incontro. Non si trattava solo
di rubare vite umane, ma anche di distruggere famiglie, creare orfani, arrecare
dolore a persone non direttamente coinvolte. Dalla mia parte non avevo alcun
impedimento. Avrei solo fatto un favore al mondo. E oltre lui non avrei
lasciato altre vittime innocenti lungo il mio cammino. Ma non potevo farlo, non
mi sentivo ancora privo di umanità. Quella fase invece lui l’aveva ormai superata,
era passato dalla parte dei mostri e io ero caduto nella realtà. Lo schianto
era stato forte, improvviso, ma non mi ero arreso. Ero cresciuto in fretta
nell’anima mentre nel corpo rimanevo ancora solo un ragazzino.
La pioggia cadeva pesante sull’asfalto, ogni goccia
sembrava provocare un tonfo. Me ne stavo in camera a guardarla cadere lentamente
attraverso la finestra. Pensai a quel posto. Avevo vissuto in quel quartiere da
tutta una vita. C’ero nato in quella casa, mia madre non aveva voluto partorire
in ospedale. E dalla sera in cui nacqui quella casa diventò la mia prigione. In
quel luogo nacqui, crebbi e i miei sogni andarono in frantumi.
Ne avevo tanti di sogni quando ero piccolo, ma mio padre
puntualmente mi faceva tornare alla realtà dicendo che non ero abbastanza
capace per fare lo scienziato o l’astronomo o l’astronauta. Secondo il suo
parere avrei potuto al massimo fare lo spazzino. Il mio sogno più grande erano
le stelle. Le guardavo spesso quando ero piccolo, erano così numerose e
splendenti che non potevo fare a meno di restare incantato dinnanzi ad esse. E
chissà quante cose si nascondevano tra gli astri. Mi sarebbe piaciuto tanto
poter toccare una stella, un desiderio stupido certo, ma era comunque soltanto
un sogno.
Da quando la mamma era morta papà mi aveva persino tolto dalla
scuola. “Tanto non ti servirà a niente” era stato il suo commento. Riuscì così
a troncare non solo ogni mia aspirazione, ma anche qualsiasi contatto umano al
di fuori delle mura domestiche. Finite le medie per non restare con le mani in
mano dovetti quindi cercare un lavoro. Avrei voluto ribellarmi alla sua
decisione, ma sapevo che se lo avessi fatto mi sarebbe andata peggio. Mi
avrebbe fatto del male, avrebbe potuto uccidermi e forse sarebbe stato meglio,
ma in quel periodo non mi ero ancora reso conto di quanto fosse grave la mia
condanna. E quando diventai consapevole era ormai troppo tardi per fuggire, per
iscriversi di nuovo a scuola o per qualsiasi altro progetto avessi in mente. La
mia prigione era diventata ormai una cosa mentale da cui non potevo più uscire.
Lui aveva distrutto quel briciolo di vita che ancora era rimasto in me. Ma
presto qualcosa cambiò.
© Fab Draka 2011
lunedì 2 aprile 2012
Un pezzo di carta può davvero cambiarti la vita?
Dopo tanti sacrifici, notti insonni, pasti consumati a metà e profonde crisi di nervi alternate a fasi di stress, sono finalmente riuscito a raggiungere il traguardo: mi sono laureato. Sembrava un'impresa e adesso invece è come se nulla fosse cambiato. Può fare davvero la differenza un pezzo di carta tanto sudato? Eppure non ho ancora un lavoro e dallo status di studente sono passato ora a quello di disoccupato senza che me ne sia veramente reso conto. Esatto, perché nonostante il faticoso percorso non riesco ancora a definirmi un laureato. E' come se il mio percorso fosse incompleto. Un tragitto fatto a metà, tra vetri rotti che adesso si sono tramutati in spuntoni di rocce appuntite, e un sole all'orizzonte che splende, ma ancora troppo lontano. Mi chiedo, è davvero finita? Non è forse adesso che comincia la parte peggiore? Quel baratro spaventoso che mi fa capire di non aver concluso nulla se non sfrutto ciò che ho acquisito? E cosa ho veramente imparato da tutto ciò, se non che per poter ottenere il minimo devi dare il massimo? Che mesi di m***a ho affrontato, chiuso in casa quasi fossi una suora in clausura... Ma ne è valsa la pena. Adesso ho un titolo, un pezzo di carta. Può sempre servire no? Non si sa mai che finisca la carta igienica in casa, si ha la soluzione a portata di mano... E beh, in questo paese non se ne può far altro uso d'altronde. Bisogna andar fuori per uno come me per concludere qualcosa, per ottenere il giusto, quello che spetta, un minimo di diritti.
Uno potrebbe anche pensare "Ora che ho raggiunto questo traguardo, posso finalmente fare il lavoro che ho sempre desiderato"... non oso illudermi tanto, ma si sa, la speranza è sempre l'ultima a morire.
Uno potrebbe anche pensare "Ora che ho raggiunto questo traguardo, posso finalmente fare il lavoro che ho sempre desiderato"... non oso illudermi tanto, ma si sa, la speranza è sempre l'ultima a morire.
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