domenica 5 agosto 2012

Primo capitolo di "Love Kills"





Sono nato piangendo, come tutti gli esseri umani, mentre la gente intorno a me sorrideva felice. Ma ho deciso di terminare la mia vita in modo da essere l’unico a sorridere quando morirò. Prenderò questa perla di saggezza di Jim Morrison per esprimere in breve la mia vita.
Ho preferito abbandonare una via per seguirne un'altra e se le cose andranno peggio questo non posso saperlo, ma di certo qualcosa cambierà per sempre.

Sdraiato su quel letto freddo fissavo il muro con occhi spenti, come se tutto ciò che mi circondava fosse evanescente. La stanza, quasi del tutto buia a causa delle persiane socchiuse, era diventata inquietante non solo a causa dell’oscurità che la avvolgeva, ma anche per il fatto di essere permeata di umiliazioni e violenze che non riuscivo più a sopportare. Abusi che si perpetravano ormai da anni.
Fissavo quel maledetto muro mentre il mio carnefice abusava di me un’altra volta, senza che potessi pensare a nulla. La mia mente si svuotava del tutto ogni volta che succedeva, come se mi trovassi in una sorta di trance o in un altro luogo lontano.
All’inizio oltre alla confusione c’era stato il dolore fisico, poi col tempo mi ero abituato, ma la sofferenza che portavo dentro era immensa e non cessava mai.
Quando ebbe finito con me prese una mia maglietta e ci si pulì. Lo lasciai fare, non l’avrei mai più rimessa. Rimasi lì sdraiato sul letto mentre lui andava in bagno a pisciare, il mio sguardo rimase ancora fisso sul muro come se in qualche modo stessi cercando di guardarvi oltre, sapendo tuttavia che anche fosse stato possibile non vi avrei trovato granché.
Rientrò nella stanza e prese dei vestiti dalla sedia vicino al comò, se li mise e poi tornò in bagno a darsi un’ultima sistemata, non si era nemmeno accorto che ero ancora sdraiato sul letto. Non mi salutò neanche prima di uscire, e perché mai avrebbe dovuto farlo? Gli oggetti non si salutano.  Mi lanciò uno sguardo indifferente e andò via.
Spostai lo sguardo altrove, poi mi alzai lentamente sentendo dolori atroci ovunque, sembrava quasi che mi avesse rotto le ossa. Mi alzai a fatica e mi misi seduto sul letto cominciando a piangere disperatamente. Fuori pioveva. La natura sembrava partecipare al mio dolore. O magari era Dio che piangeva per me. “E perché non mi aiuta invece di compatirmi?” pensai con rancore.
La pioggia mi faceva venire in mente il sangue, scorre lenta su di te, scivola sulla tua pelle e può far male. Un male dannato. Il sangue mi congiungeva al mio carnefice. Stesso sangue. Un male che mi aveva condannato sin dalla più tenera età. Sapevo cosa dovevo fare. Ma quella sarebbe stata davvero l’ultima volta?
Mi misi sotto la doccia. Solo in quel modo sarei riuscito a levarmi il suo odore di dosso. Solo in quel modo avrei provato la sensazione di tornare di nuovo puro per pochi istanti. Ma erano solo attimi. Dicono che la felicità sia fatta proprio di questo, attimi. E bastava poco per farmi crollare di nuovo. Scoppiavo a piangere all’improvviso senza più riuscire a fermarmi. Uscii dal bagno totalmente nudo, ancora bagnato. Ravviai i capelli bagnati dietro la testa, raggiunsi il suo armadio e ne tirai fuori una scatola di scarpe. Gocciolavo tutto, ma questo non importava. Il contenuto di quella scatola era molto più importante.
Chiusi gli occhi un istante e presi un profondo respiro, poi la aprii. Conteneva una 9mm e un caricatore. Lui la teneva per difendersi dai ladri.  Non sapeva che avevo trovato quella scatola pochi mesi prima e che da allora ero sempre stato tentato dall’idea di farlo a pezzi con quell’oggetto così piccolo e così micidiale. Sotto la 9mm vi erano alcune foto impolverate. Ritraevano mia madre. Le guardai con gli occhi ancora gonfi per il pianto e le strinsi al petto. Ci aveva lasciati da quattro anni, ma il suo ricordo non se n’era mai andato. Il suo cuore pieno d’amore si era dedicato totalmente al mio bene, ma non aveva resistito e alla fine aveva smesso di battere. Pensai che fosse andata meglio a lei che a me. Per lei quel tragico pomeriggio l’incubo era finito, per me era appena iniziato.
Riposi le foto sotto la pistola e richiusi la scatola. Non era ancora il momento giusto. Non ero pronto per fare una cosa del genere. Per secoli l’uomo aveva lottato contro se stesso, fatto stragi, carnefi-cine e tutto senza mai rendersi conto di ciò cui andava incontro. Non si trattava solo di rubare vite umane, ma anche di distruggere famiglie, creare orfani, arrecare dolore a persone non direttamente coinvolte. Dalla mia parte non avevo alcun impedimento. Avrei solo fatto un favore al mondo. E oltre lui non avrei lasciato altre vittime innocenti lungo il mio cammino. Ma non potevo farlo, non mi sentivo ancora privo di umanità. Quella fase invece lui l’aveva ormai superata, era passato dalla parte dei mostri e io ero caduto nella realtà. Lo schianto era stato forte, improvviso, ma non mi ero arreso. Ero cresciuto in fretta nell’anima mentre nel corpo rimanevo ancora solo un ragazzino.
La pioggia cadeva pesante sull’asfalto, ogni goccia sembrava provocare un tonfo. Me ne stavo in camera a guardarla cadere lentamente attraverso la finestra. Pensai a quel posto. Avevo vissuto in quel quartiere da tutta una vita. C’ero nato in quella casa, mia madre non aveva voluto partorire in ospedale. E dalla sera in cui nacqui quella casa diventò la mia prigione. In quel luogo nacqui, crebbi e i miei sogni andarono in frantumi.
Ne avevo tanti di sogni quando ero piccolo, ma mio padre puntualmente mi faceva tornare alla realtà dicendo che non ero abbastanza capace per fare lo scienziato o l’astronomo o l’astronauta. Secondo il suo parere avrei potuto al massimo fare lo spazzino. Il mio sogno più grande erano le stelle. Le guardavo spesso quando ero piccolo, erano così numerose e splendenti che non potevo fare a meno di restare incantato dinnanzi ad esse. E chissà quante cose si nascondevano tra gli astri. Mi sarebbe piaciuto tanto poter toccare una stella, un desiderio stupido certo, ma era comunque soltanto un sogno.
Da quando la mamma era morta papà mi aveva persino tolto dalla scuola. “Tanto non ti servirà a niente” era stato il suo commento. Riuscì così a troncare non solo ogni mia aspirazione, ma anche qualsiasi contatto umano al di fuori delle mura domestiche. Finite le medie per non restare con le mani in mano dovetti quindi cercare un lavoro. Avrei voluto ribellarmi alla sua decisione, ma sapevo che se lo avessi fatto mi sarebbe andata peggio. Mi avrebbe fatto del male, avrebbe potuto uccidermi e forse sarebbe stato meglio, ma in quel periodo non mi ero ancora reso conto di quanto fosse grave la mia condanna. E quando diventai consapevole era ormai troppo tardi per fuggire, per iscriversi di nuovo a scuola o per qualsiasi altro progetto avessi in mente. La mia prigione era diventata ormai una cosa mentale da cui non potevo più uscire. Lui aveva distrutto quel briciolo di vita che ancora era rimasto in me. Ma presto qualcosa cambiò.



© Fab Draka 2011

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